“Said in Italy” del 2 ottobre 2016

Sentir parlare di Lessico famigliare farà di certo venire in mente, ai più, il titolo del romanzo autobiografico di Natalia Ginzburg, pubblicato da Einaudi nel 1963.

A chi invece si diletta con la lingua, a smontare la superficie delle parole per carpirne l’ossatura e il contributo di ciascun pezzo al meccanismo complessivo, lessico famigliare ammiccherà all’insieme delle parole che condividono la medesima base, ovvero quella sorta di ponte che consente ai parlanti di comprendere a cosa ci si riferisca.

Adottando questa prospettiva, si potrà costruire, intorno a ciascuna parola, una fitta rete di relazioni, alcune patenti, altre meno vistose perché ossidate dagli effetti del tempo, che possono aver opacizzato la forma o il significato della base.
Se perciò nessun parlante avrebbe dubbi nello stabilire la parentela tra cane e canile, o ne avrebbe solo pochi innanzi a cane e cagnolina, dove al massimo, ragionando in modo analogico come farebbe un bambino, si potrebbe chiedere perché cagnolina e non canolina, i dubbi inizierebbero a farsi più consistenti al trovarsi a udire o leggere cinodromo, specie in assenza di un contesto agevolante per la comprensione.

Accanto a questi casi, in cui a ‘difettare’ e quindi a comportare un incremento di lavorio interpretativo, è la forma, ci sono invece quelli in cui, pur mostrandosi, in due o anche in una serie di parole, senza alterazioni, la stessa base stenta a essere riconosciuta.
Accade spesso con candidato, non associato al candore del bucato o di una trovata infantile se non dopo l’accompagnamento esplicativo da parte di un dizionario o di qualcuno che, attingendo alla propria conoscenza del latino, ne ricostruisce i rivoli semantici. E accade con fine, membro capofila di una famiglia che annovera, tra i tanti parenti, finire, confine, definire, predefinire, ridefinire, prefinire, raffinire, diffinire, rifinire, sfinire, disfinire, confino, fino, perfino, confinare, sconfinamento…

Intorno a ciascuno di questi termini si potrebbe, ben inteso, installare una o più maniglie linguistiche e in primis etimologiche funzionali a comprendere la posizione occupata dal termine nella famiglia e al contempo a offrire un appiglio che possa rendere il parlante meno traballante.
Ma per farlo occorrerebbe lavorare su quella stratificazione della lingua più lontana dall’immediatezza dell’uso e acquisire la consapevolezza della propria immersione permanente in un brodo primordiale fatto di suoni, di sillabe, di morfemi, di significati e di tutto quanto fa sì che il flusso di aria espirata da ciascun esemplare della nostra specie
si faccia lingua.
Solo così si giungerebbe a capire quanto la fine o il confine sia un elemento centrale del nostro vivere di linguaggio; anzi, non è esagerato dire che sia ciò che consente alla nostra forma di linguaggio di avere una riconoscibilità. Una volta capito questo, che il confine è qualcosa di naturale e di funzionale alla conoscenza, giacché consente di percepire come discreto – fatto di entità separabili e riconoscibili – qualcosa che diversamente sarebbe continuo, si avrà sufficiente consapevolezza delle ragioni per cui troppo spesso la fine o il confine sono impugnati a mo’ di grimaldello vessatorio di quanto giace oltre il confine stesso. Ma questa è un’altra storia… questa è cultura asservita a una ideologia.

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