Fondazione “Ugo Spirito”, 20 Febbraio 2009

La conoscenza dello spazio fisico, la sua categorizzazione a livello mentale e la sua successiva, conseguente riorganizzazione nella trama di ciascuna delle lingue entro cui si realizza la facoltà di linguaggio, sono fatti dati normalmente per acclarati, che mai ci si sognerebbe di mettere in discussione, dal momento che procedono, tutti, da un unico fattore iniziale: l’esistenza dello spazio fisico.

Di questa esistenza nessun uomo sano si arrischierebbe di dubitare e a motivo di ciò la misurazione di questo spazio sembra avvenire con esattezza anche perché supportata dall’impiego di unità di misura elaborate in seno ad una riflessione sullo spazio stesso e sulle sue proprietà.

Rispetto a questa esattezza, anzi proprio prendendo a modello di riferimento questa esattezza, esiste una seconda misurazione dello spazio, nel comune sentire più debole e meno rigorosa perché non basata sull’impiego di unità di misura aprioristicamente determinate e soggetta a tutta quella plurifattorialità che sembra condizionare inevitabilmente tutti i fatti umani: si tratta dello spazio percepito, esperito e vissuto attraverso gli apparati della cognizione e consolidato in sistemi di riferimento atti a trasmetterne la consistenza.

Connesse con la capacità di simbolizzazione e dunque con il dominio dell’astrazione (sebbene si tratti di un’astrazione in parte addomesticata dalla forma dei significanti), le lingue sembrano costituire, tra questi sistemi di rappresentazione dello spazio, quello senz’altro più agile e anche per certi versi rigoroso, benché soggettivo. L’assurgere a convenzionalità di questa soggettività – conseguentemente all’accettazione da parte di tutti coloro che si servono di una medesima lingua – attenua infatti gli originari limiti connessi all’arbitrarietà del segno e fa acquisire alla lingua una parvenza di oggettività della quale si inizia a dubitare solo quando ci si viene a trovare nella condizione di confrontare lingue o varietà di lingue differenti.

Quando ciò accade – solo allora o quando ci si confronta con il processo dell’acquisizione linguistica da parte del bambino, nel quale il sentimento della convenzionalità/soggettività condivisa (e dunque oggettività sentita) sono ancora da venire – si inizia ad avvertire l’esigenza di chiarire il rapporto tra spazio fisico e spazio vissuto per il tramite della lingua e ad interrogarsi su cosa sia esattamente lo spazio al di fuori o oltre lo spazio fisico.

Per chiarire la prospettiva del linguista si comincerà col dire con cosa non coinciderà questa ricerca, ovvero si comincerà con lo stabilire che lo spazio della lingua è cosa del tutto diversa dallo spazio linguistico, almeno da quello inteso come distribuzione di lingue o di varietà di lingue all’interno di territori geograficamente o politicamente individuati. Se di spazio linguistico si parlerà, lo si farà tutt’al più in senso mentalistico, un senso in certa misura estraneo o per lo meno periferico rispetto al nucleo per così dire hard della linguistica: perché «[…] se il Novecento è stato per la filosofia il secolo della svolta linguistica, certamente per gli studi linguistici è stato il secolo di svolte varie e numerose», a seguito delle quali ci si trova costretti a chiarire in base a quali presupposti o con quali finalità ci si volga alla descrizione del linguaggio: «Restiamo al secolo scorso e andiamo per grossi tagli: c’è stato lo strutturalismo classico europeo di radice saussuriana, quello americano d’origine bloomfieldiana, la linguistica di Chomsky, la complessa galassia di studi che vanno sotto la denominazione di scienze cognitive, lo sviluppo ramificato della linguistica sociologica, antropologica e pragmatica» (Prampolini 2002, p.8).

Ebbene, se si vuole parlare di spazio dal punto di vista del linguista, quand’anche limitandosi ad affrontare l’argomento traendo spunto per il confronto dalle teorie recenti, occorrere chiarire da quale punto di vista lo si intende fare: insieme alla complessa teorizzazione la ricerca di formalismo ha infatti condotto ad una frammentazione metalinguistica in virtù della quale termini diversi si riferiscono ad una stessa realtà concettuale oppure, al contrario, realtà concettuali diverse “sono riferite” da un medesimo termine.

La prima conseguenza di questa ricchezza è che, in ordine alla lingua e al linguaggio, non si parlerà dello spazio ma, semmai di uno spazio, ameno di non voler fissare a monte delle coordinate rigorose che finirebbero però per deprivare l’analisi di quel fascino (determinato anche dell’incertezza) imputabile alle complesse dinamiche che collegano la lingua intesa come conoscenza di un complesso sistema semiotico da parte del singolo individuo; come conoscenza (più o meno) condivisa nell’ambito di una stessa comunità che se ne serve continuamente per realizzare degli scopi, primo tra tutti quello comunicativo; come manifestazione di una più complessa capacità cognitiva non disgiungibile dalla dimensione corporea dell’essere umano.

Proteiforme per antonomasia, il linguaggio si carica di tutto quanto connesso con il suo essere al tempo stesso fatto genetico, biologico, neurale, mentale, emotivo, fisiologico, individuale, sociale, stabile e al tempo stesso in lento ma incessante divenire, tanto per richiamarne le principali caratteristiche.

Si avrà perciò uno spazio legato allo sviluppo della percezione, organizzato secondo lo schema alto-basso e destra-sinistra e rappresentato da coordinate spaziali che trovano realizzazione diversa nell’ambito delle singole lingue;

uno spazio mentale inteso come la mappa di tutte le conoscenze che possono ma non necessariamente trovano espressione in correlati linguistici, plastico e soggetto al continuo rinnovarsi dell’esperienza del mondo, alimentato potentemente dal procedere della lingua per via di metafora;

uno spazio concreto nell’ambito del processo comunicativo, lo scenario della conversazione, al cui interno la lingua si ritaglia un proprio spazio (!) collegato al primo per mezzo ad esempio della deissi ma anche di più sofisticati sistemi di “ancoraggio” espressi per via semantica o morfologica;

uno spazio connesso con i limiti dell’articolazione, quella materialità intuibile ma non tangibile che fa sì che pur in assenza di punti univoci ci possa essere una determinata qualità vocale – qui intesa in senso lato a comprendere sia i fati di fonetica segmentale sia quelli soprasegmentali – solo qualora l’articolazione si produca entro certi limiti;

uno spazio uditivo, che ha a che fare con il passaggio dalla percezione alla comprensione, punto terminale di complesse trasformazioni di segnali;

uno spazio proibito, conseguenza di quella complessa interazione tra psicologico e sociale che sta alla base dell’interdizione, i cui effetti si avvertono sul piano della pragmatica e della semantica e a cascata sul sistema in tutti i suoi livelli.

Tanti “spazi”, dunque, ciascuno dotato di una propria specificità ma ciascuno in realtà non perfettamente indipendente rispetto agli altri, tanto da costringere se non a prendere posizione almeno a confrontarsi con la questione di una possibile visione olistica dei fenomeni linguistici da contrapporre concettualmente alla dicotomia discreto-continuo con la quale è prassi generalizzata, tra i linguisti, spiegare la distanza che passa tra ciò che si sa della lingua (nel senso dell’intuizione del parlante sulla propria lingua materna) e ciò che si fa con la lingua, nel senso più ampio del termine.

Si potrebbe allora essere tentati di ritenere che si tratti di una polimorfia specifica dei saperi umanistici, persino di quelli più “freddi”, la cui aspirazione alla esattezza si scontra ed è frustrata dall’incapacità di ricreare condizioni costanti.

L’aver però postulato nell’ambito della fisica, ambito sicuramente freddo, una teoria come quella dei Loop di Rovelli, impone la revisione, qualora la si formulasse, della proporzione fisico : oggettivo = vissuto : soggettivo, semplicistica e parziale.

Scopo di questo contributo, provvisorio e limitato perché sarebbe impensabile pensare di poter anche solo passare in rassegna tutte le possibili ricadute sul linguaggio dell’esistenza dello spazio o di quello che si crede essere lo spazio, è di fornire una spigolatura di spunti di riflessione e di punti vi vista adottando la prospettiva del linguista e di proporre una chiave di lettura per una possibile base “ontologica” comune a tutta la pluralità di fatti osservabili.

Testo completo, pubblicato nella collana “Sensibilia” (2010)