“Il riposo del guerriero” del 10 marzo 2013

Ogni uomo ha la sua lingua e ogni lingua ha i suoi uomini e le sue donne e i suoi bambini, i suoi adulti e gli anziani, i più e i meno acculturati, i più o meno appassionati o praticanti di uno sport, di un hobby, di un’attività, i cosmopoliti, coloro che si spostano frequentemente e con piacere e coloro che non amano spostarsi dal proprio luogo natio o dal proprio quartiere. Per costoro, come per tutti gli altri gruppi di individui che l’esperienza di ciascuno di noi potrebbe ritagliare dal tessuto sociale in cui viviamo immersi – e che, conseguentemente, potrebbe elencare – c’è una lingua.

A volte si tratta di vere e proprie varietà, altre volte di gerghi, altre volte di codici condivisi da una manciata di individui. Comune a queste esperienze è l’espressione dell’identità di chi se ne serve.

Accade così sul piano pratico che osservando il modo di parlare e di comunicare di qualcuno se ne possa dedurre l’appartenenza ad un certo gruppo sociale, e, al contrario, che per cercare di entrare a far parte di un gruppo sociale (o di far credere se ne faccia parte) si inizi ad esprimersi nel modo solitamente attribuito a questo gruppo.

paninaroTra quelli più celebri i paninari, i punk e, in epoca più recente, gli attivisti del movimento Cinque stelle, alla cui identità sociale per effetto della stampa si sta attaccando negli ultimi tempi il tratto del complottismo (il bello o il brutto del gioco è proprio questo, la parziale rilevanza della veridicità dei tratti, che solo entro una certa misura può essere controllata e contenuta dagli appartenenti al gruppo: sull’identità individuale prevale spesso infatti quella sociale, costruita dall’osservatore).

Nevralgico in questo discorso è il rapporto tra il gruppo sociale e l’habitus con cui si mostra agli altri. E con habitus mi riferisco a qualità della voce, abbigliamento, colore degli occhi, dei capelli o della pelle, che nella mente del parlante, quando organizzate in etichette che servono per identificare gruppi sociali, diventano vere e proprie marche di appartenenza di un individuo a un gruppo sociale.

Prendiamo l’esempio del paninaro: chiunque fosse giovane negli anni Ottanta (le prime attestazioni scritte della parola sono del 1981) o chiunque seguisse i programmi della TV commerciale di quegli anni, anche senza conoscere il termine paninaro ha bene in mente il risultato della combinazione dei tratti: parlata milanese, abbigliamento griffato (piumino e stivali d’inverno o giubbetto di jeans meglio se non foderato di pelo d’estate), inclinazione al consumismo e al divertimento a ogni costo, all’impiego di espressioni quali Essere fuori come un citofono… (ogni sostituito da balcone, ma con lo stesso significato di ‘sragionare’), Andare per il week a Curma, La mia sfinzia (per la mia ragazza), Tranqui (per tranquillo), I miei genitors (per i genitori, oggi sostituito anche da arterio).

Esportato in altre città italiane il paninarismo si è contaminato con le tendenze proprie dei luoghi di arrivo acquisendone denominazioni specifiche e caratteristiche aggiuntive: penso ai tozzi di Roma o ai chiattilli napoletani, ai bondolari (dalla bondola, un insaccato simile alla mortadella) e ai mottarelli (dal bar Motta davanti cui stazionavano) veronesi, fazioni ben distinte all’interno dell’unico movimento paninaro veronese.

Amplificato dai film (penso ai tanti cinepanettoni o ai cinecocomeri, la loro versione estiva) e dalla pubblicità, l’insieme di questi tratti si è sedimentato in blocco così da diventare un tassello della nostra conoscenza composito ma unitario, difficilmente scindibile nelle sue parti: quando questo accade, la presenza di uno di questi tratti comporta l’attivazione simultanea degli altri e, conseguentemente, l’inserimento nella categoria di riferimento di qualcuno che mostra quel tratto.

Questo modo di procedere, naturale, in assenza di una cospicua consapevolezza critica può però portare alla creazione di stereotipi (la seconda parte dalla parola greca per ‘impronta’), di porzioni di conoscenza precostituite che, se da una parte facilitano il nostro ragionamento e la nostra facilità di comprensione, dall’altra rischiano di renderci manipolabili.

Prendiamo il caso della milanesità: soprattutto per un non milanese la milanesità trova la propria espressione esemplare nel panettone, nel Duomo, nella camicia con cravatta corredata di vari telefoni cellulari, nei mocassini oltre che nel modo di parlare ritenuto tipico di certi ambienti sociali della città.

Si pensi, restando agli anni Ottanta, a Guido Nicheli nei panni de il Zampetti, il cumenda protagonista della serie televisiva I ragazzi della 3ª C.: passano gli anni, ma non i tratti, ed ecco un nuovo cumenda: Roberto Mercandalli, partecipante al reality Grande Fratello 8, innegabilmente simile al Zampetti.

Che significa? Che non dobbiamo essere miopi, che dobbiamo usare il cervello… quando di questi meccanismi ci rendiamo conto, infatti, possiamo raggirarli e anzi giocare con essi, come hanno fatto gli autori del fantomatico spot dell’Istituto Sant’Ambrös, il cui claim «”Ti fa diventare di Milano”! E potrete dire finalmente anche voi: “Uè figa!”», appare quanto mai funzionali al discorso che sto cercando di costruire.

Restando in Italia, l’accento emiliano evoca invece immediatamente sottofondi di mazurke e probabilmente piatti di tortellini.

La stessa logica non lascia scampo allinglese snob e con la bombetta, al lammerecano in ansia perenne da rischio di attacco terroristico, al tetesko mangiapatate e al mangiarane francese, che, visto dall’americano, diventa, però, maleodorante. E la lista potrebbe allungarsi con l’Ungheria paese delle pornostar, con la Polonia terra di idraulici (o paese del Papa, di quello più carismatico che perciò rimane Papa, anzi il Papa, anche una volta passato a miglior vita) e l’Italia vista dall’estero come della terra di Mafia, spaghetti e mandolino.

Un artista, Yanko Tsvetkov, ha raccolto questi stereotipi riportandoli sull’atlante e ottenendo così la mappa mondiale degli stereotipi e del pregiudizio che da essi può scaturire. Diversamente orientate, le mappe raccontano di come i cittadini dei singoli stati dell’Unione Europea vedano quelli degli altri stati o di come gli statunitensi vedano gli europei; di come gli inglesi o i tedeschi vedano il resto degli europei e via dicendo. Per gli inglesi gli italiani sono ad esempio pensionati rinsecchiti o grossi mangiatori.

L’esperimento ha ottenuto il favore di oltre mezzo miliardo di utenti, di norma attenti agli altri e poco interessati a guardare a se stessi e a capire le ragioni per cui si appare agli altri in un certo modo.