“Il riposo del guerriero” del 17 marzo 2013

Iniziamo una piccola retro-spettiva linguistica su retro e i suoi significati partendo, come è ovvio, dalla parola retro e dalla sua sorella adottiva retrò, prestito dal francese che lascia però facilmente trapelare la comune origine dal latino retro (da re– + tro, una forma di ter, la stessa che si trova anche in intro, citro, etc.), lo stesso avverbio reso intramontabile dall’imperitura locuzione vade retro Satana.

L’avverbio si trova sostanzialmente impiegato in tutta la storia della nostra lingua con il significato di ‘dietro, alle spalle (di una persona, di una cosa o di un luogo presi a punto di riferimento)’ e sostantivato per indicare, ad esempio, la parte posteriore, di un edificio ma anche di una persona. Non è infatti sconosciuto l’uso di retro per ‘sedere’, forma eufemistica alternativa a posteriore per indicare il deretano. Tutte parole connesse con il dietro accomunate dalla necessità di non usare termini più sconvenienti.

Ritroviamo retro in numerosi composti, tra i quali retrogrado ‘che cammina all’indietro (rispetto all’osservatore), che scorre in senso opposto rispetto al normale’ ma anche, ed è il senso che a noi interessa, ‘che guarda al passato, che torna indietro, al passato, con il pensiero’. Lo stesso significato che oggi va di moda esprimere con retrò, ripreso intorno al 1980 dal francese, in cui costituiva la prima parte di parole come rétrospectif o rétrograde, rispettivamente ‘retrospettivo’ e ‘retrogrado’.

Questo per dire che il termine in sé non era necessario, in quanto sostanzialmente identico al nostro retro (proprio come casino e casinò o réclame e richiamo e reclamo) ragione per cui se lo abbiamo ripreso è di certo non per necessità ma per questioni di prestigio e inclinazione all’impiego di esotismi e forestierismi.

Retrò o rétro indica ciò che si rifà al passato, uno stile o un gusto che recupera vecchie tendenze, vecchi stile. Del termine è attestata anche un’accezione peggiorativa di ‘fuori moda, sorpassato’, ma per lo più gli italiani lo usano, anche abbastanza compiaciuti, per parlare di oggetti o stili recuperati dal passato. Rispetto al cugino italiano retro, il termine assume perciò una connotazione agli occhi dei parlanti di fatto sempre positivo e non necessitante di precisazioni su questa valutazione. Come invece capita per retro, anche per effetto dei significati delle parole nella cui formazione è rientrato (ho detto di retrogrado ma ci metto anche retrivo e retrivismo, che si riferiscono a chi è apertamente ostile al progresso).

Dopo averlo spiegato da un punto di vista teorico, voglio però esemplificare il rapporto tra retro e retrò con un noto Carosello… dal sapore retrò.

Si tratta della pubblicità di Confetto Falqui della fine degli anni Cinquanta con protagonista Tino Scotti, più precisamente dello spot che avrebbe segnato la fortuna dello slogan «Falqui… basta la parola», con protagonista, in questo caso, Dracula il vampiro.

Il passaggio clou, che voglio farvi sentire, esemplifica un parlare che oggi definiremmo retrò: oggi sarebbe infatti improponibile, in sua presenza, dire “c’è un negro che le vuol parlare” (più o meno min. 1.48)

Non si tratta del solo esempio di cambiamento di abitudine indotto dal politicamente corretto nella nostra lingua degli ultimi decenni.

Allo stesso modo nella Dolce Euchessina abbiamo infatti i vecchi e non gli anziani.

A ben pensarci, però, ci troviamo di fronte a un paradosso: il politically correct ha modificato la nostra sensibilità nei confronti di chi ha la pelle scura o un’età avanzata, ma nulla è riuscito a fare nei confronti delle funzioni intestinali, per parlare delle quali si ricorre ancora a modelli di sostituzione che sostanzialmente riflettono quelli di 50 anni fa (uno tra tutti “sono puntuale come un orologio!”, completamente incomprensibile in assenza di contesto).

Naturalmente ci sono tentativi di apertura a un lessico meno opaco, pensiamo al carbone contro flatulenza o meteorismo, sapientemente tradotti, per evitare di far perdere comprensibilità al messaggio, in “che fastidio quell’aria nello stomaco”, ma di norma in pubblicità, dove non ci si pone il minimo scrupolo a mercificare corpi e pezzi di corpi (per lo più femminili) per pubblicizzare di fatto quasi ogni tipo di prodotto, persiste un insuperabile riserbo, un senso di assoluta decenza, quando ci si trova costretti a riferirsi alle proprie funzioni digestive.

Che sia politicamente corretto o meno, resta la persuasione e il condizionamento esercitato su di noi dalle parole che usiamo. E, su questo, riflettiamo gente, riflettiamo…

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