“GEO & GEO” del 10 dicembre 2010
Spunti
http://www.repubblica.it/2006/12/gallerie/ambiente/neve-emirati/1.html
Un’ondata di freddo senza precedenti negli Emirati Arabi Uniti, dove i 50 gradi non sono una rarità, ha coperto con 20 centimetri di neve la cima del monte Al-Jees a 1.737 metri di quota. Un evento così raro che nel dialetto locale la parola ‘neve’ neanche esiste
http://www.3bmeteo.com/giornale-meteo/la+neve+imbianca+gli+emirati+arabi-8752
Una coltre di neve ha imbiancato il Jebel Jasis, negli Emirati Arabi Uniti. Si tratta di un evento al quanto insolito tanto che nel dialetto locale, la parola “neve” non esiste. Il fenomeno rientra nella normale variabilità del clima. Secondo i ricercatori del CNR, questo fenomeno potrebbe essere legato al ciclo del Sole, da cui ora arriva poca energia. Alle pendici della montagna, forti precipitazioni temporalesche accompagnate da grandine e temperature al di sotto delle medie del periodo. Nei prossimi giorni con l’allontanamento della goccia fredda, le condizioni meteo riprenderanno il loro normale iter tipico della zona.
Il punto di partenza di questo intervento è stato un articolo de l'”Internazionale” (ottobre 2010), la sintesi di un saggio uscito da poco a cura di un ricercatore anglosassone, Guy Deutscher, honorary research fellow presso la School of languages, linguistics and cultures dell’università di Manchester, in Gran Bretagna.
Il suo ultimo libro, dal quale è stato adattato questo articolo, s’intitola Through the language glass: why the world looks diferent in other languages (Metropolitan Books 2010).
I punti fondamentali, e intorno ai quali si può dipanare la conversazione, sono tre
Nel saggio si dice
1) Tra gli anni ’30 e ’40 del Novecento, Sapir propose una ipotesi che, perfezionata insieme all’allievo Whorf, prese il nome di ipotesi Sapir-Whorf e che comunemente è definita come ipotesi del relativismo linguistico (esistono relazioni sistematiche tra le categorie grammaticali di una lingua ed il modo in cui il parlante di quella lingua percepisce il mondo).
L’ipotesi nasce, come spesso accade, dall’incontro con la diversità: in questo caso le lingue dei nativi d’America (lingue amerindiane); la nostra lingua madre imporrebbe dei limiti a quello che siamo in grado di pensare. Secondo Whorf, le lingue degli indigeni d’America determinano in chi le parla una visione della realtà completamente diversa dalla nostra
2) Studi successivi (siamo nell’epoca in cui la linguistica si incontra con le neuroscienze e inizia a diffondersi, almeno in certi orientamenti della discipline, l’esigenza di scientificità e di sperimentabilità per le ipotesi proposte) mettono in evidenza la mancanza, per questa tesi, di un fondamento scientifico. L’ipotesi viene bollata come peregrina, benché affascinante, e abbandonata.
“Alla fine la teoria di Whorf si è scontrata con i fatti e con il buon senso, anche perché si è saputo che le sue affermazioni non erano mai state dimostrate. Oggi sappiamo che Whorf ha fatto molti errori. Il più grave è stato quello di presumere che la nostra lingua imponesse dei limiti alla mente e ci impedisse di pensare certe cose. Alla base della sua tesi c’era l’idea che se una lingua non ha la parola corrispondente a un concetto, chi la parla non è in grado di capire quel concetto”.
“Le lingue differiscono essenzialmente in ciò che devono esprimere e non in ciò che possono esprimere” (Jakobson).
3) In epoca recente si assiste ad un recupero dell’ipotesi, in versione meno radicale, a seguito della scoperta di “nuove” lingue e dell’analisi diversa di categorie linguistiche fondamentali
Esempi tradizionali
– l’associazione del genere maschile-femminile(-neutro) agli stessi oggetti risulta diversa a seconda della lingua considerata;
– i colori, che alla base hanno una medesima capacità ricettiva della retina, non sono codificati allo stesso modo nelle stesse lingue;
– ci sono lingue che “misurano” lo spazio in modo egocentrico, ovvero mettendo il parlante al centro dello spazio in cui si realizza l’enunciato e altre che invece assumono punti di riferimento diversi, non necessariamente coincidenti con i punti cardinali convenzionali;
– il lessico della parentela fa riferimento in modo diverso all’albero genealogico di una famiglia.
“Alcuni nuovi studi hanno rivelato che quando impariamo la nostra lingua, acquisiamo certe abitudini mentali che condizionano le nostre esperienze in modo significativo e spesso sorprendente.
Obbligandoci a specificare certe informazioni, la nostra lingua ci costringe a prestare attenzione ad alcuni aspetti dell’esperienza, a cui le persone che parlano altre lingue non sono costrette a pensare continuamente. E dato che le abitudini linguistiche si coltivano in dall’infanzia, è naturale che diventino abitudini mentali e influiscano su esperienze, percezioni, sentimenti e ricordi.
[…] i generi grammaticali possono condizionare i sentimenti per gli oggetti che ci circondano e le associazioni che facciamo una volta che sono state impresse in una giovane mente, le connotazioni di genere portano le persone a vedere il mondo inanimato attraverso una lente di associazioni e reazioni emotive che gli inglesi non conoscono”
La discussione potrebbe perciò svilupparsi lungo questi 3 assi e rispondere a domande del tipo:
– che si intende per relativismo linguistico?
– prima di Sapir e Whorf il rapporto tra lingua parlata e visione del mondo era mai stato trattato? (si, almeno da Von Humboldt, nei primi dell’Ottocento)
– perché la teoria, prima acclamata, è stata rigettata con l’accusa di mancanza di fondamento scientifico?
– e in base a quali scoperte è stata invece riabilitata?
– quali sono le categorie solitamente prese in esame per testare l’esistenza di una corrispondenza tra lingua e organizzazione mentale della realtà da parte del parlante di quella data lingua?
“Le prove più sorprendenti dell’influenza della lingua sul pensiero sono state trovate nel caso dello spazio, del nostro modo di descrivere l’orientamento di ciò che ci circonda. Lingue diverse, quindi, ci costringono a parlare dei rapporti spaziali in modo diverso. Ma questo significa che pensiamo allo spazio in modo diverso? Anche se una lingua non ha una parola che indica “dietro”, non significa che chi la parla non capisca questo concetto. La convenzione di usare le coordinate geografiche per comunicare costringe a prestare attenzione all’ambiente fisico (alla posizione del sole, alla direzione del vento e così via) e a conservare una memoria precisa dei loro cambiamenti di orientamento. Questa continua consapevolezza della direzione geografica viene inculcata fin dall’infanzia. Grazie all’esercizio continuo e intenso, l’abitudine diventa naturale. Né è facile ipotizzare come le lingue geografiche influiscano su tipi di esperienza diversi dall’orientamento nello spazio. Se per esempio modificano il senso d’identità o producono una visione della vita meno egocentrica”.
– prendiamo il caso dei colori: come è possibile che lo spettro non “risulti” essere lo stesso per parlanti lingue diverse? ma pur nella differenza, ci sono colori che tutte le lingue “etichettano” con un nome? e perché quelli e non altri?
“Percepiamo perfino i colori attraverso la lente della nostra lingua madre. Le lingue suddividono in modo diverso lo spettro della luce visibile. In inglese e in italiano, per esempio, il verde e il blu sono due colori distinti, ma in molte lingue sono considerati due sfumature dello stesso colore”
– prendiamo il caso del genere grammaticale degli oggetti: che implicazione può avere, stando all’ipotesi, il fatto che il sole è maschile per un italiano e femminile per un tedesco? o che la mela è maschile per un tedesco e femminile per uno spagnolo? o che una signorina in tedesco sia al neutro? (ma qui allora bisogna spiegare cos’è il neutro, un genere che l’italiano non ha, ma che bisogna presupporre per spiegare la forma, ad esempio, di it. uova)
– ma se i parlanti di lingue diverse organizzano la propria conoscenza del mondo in modo diverso, è realmente possibile comunicare?
– e i bilingui?
“Per molti anni i linguisti hanno ritenuto che la nostra lingua fosse una ‘prigione’ che limitava la capacità di ragionare. Quando hanno scoperto che questa teoria non era dimostrata, l’hanno presa come la prova del fatto che le persone di tutte le culture pensano fondamentalmente nello stesso modo. Forse non sappiamo ancora misurare queste conseguenze o valutare quanto contribuiscono alle incomprensioni culturali e politiche. Ma come primo passo verso una maggiore comprensione reciproca, possiamo fare di meglio che fingere di pensare tutti nello stesso modo”
6 ottobre 2013 at 19:17
Interessantissimo. Mi è piaciuto il contenuto e la forma dialettica e di apertura all’indagine. Bellissima la conclusione, provocatoria e seri.
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19 Maggio 2014 at 07:33
Grazie, in ritardo perché i commenti a questo blog mi sono segnalati solo oggi, ma grazie!
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