“Il riposo del guerriero” del 26 febbraio 2012

Gioco low cost, gioco di strada.

Mondo, pizzicarrampichino (o comunque lo si pronunci o scriva), uno due tre… stella, regina reginella, ferro, e, su tutti, se si esclude la pratica del pallone, campana: questi sono i nomi di molti dei giochi che hanno animato prima le giornate e poi i ricordi di tante generazioni.

Transgenerazionalità: questa appare infatti la caratteristica saliente di questi giochi, modificati, alterati nel nome o nelle regole, adattati agli ambienti a disposizione ma comunque intramontabili, almeno fino ad una certa quota cronologica, almeno fino a quando la socialità di strada non ha iniziato ad essere minata dall’avvento delle console ben più che dai pericoli delle strade.

Alleato di tanti giochi, il gesso (o i frammenti di mattoni, o un certo genere di sassi) è servito a delinearne le forme o, nel caso dell’impiccato, variante povera della televisiva ruota della fortuna, le lettere.

Perché le lettere, le parole, a loro volta hanno fatto da ingrediente unico di giochi low cost basati sulla lingua. Scritti, parlati, scritti e parlati, o basati sul silenzio, come in quello che oggi si chiama taboo, in cui è fatto esplicito divieto di menzionare ogni parola direttamente connessa con quella da indovinare.

E come non rammentare le serie di fiori-frutti-animali-cose (o nomi-città-animali-cose), strutturato sul principio ordinatore dell’acrofonia (il suono iniziale della parola), o delle catene in cui il suono finale della prima parola deve fare da iniziale alla sconda e così via fino alla sconfitta di chi non riesce a proseguire?

O invece, sul versante del significato, come non citare le associazioni del tipo sete-bicchiere-acqua-fonte-fiume lunghe fino a far dimenticare l’inizio della sequenza e a volte la ragione stessa del gioco?

Che le si smonti, incateni, tagli o modifichi, che le si unisca, le si incolonni o le si alteri, le parole animano infiniti giochi senza aver necessità, al limite, neppure di un foglio di carta.

Prototipo all’apparenza perfetto di gioco low cost e portatile, rivelano tutto il loro (alto) costo quando ci si spinga a ricercare il presupposto del loro impiego: la conoscenza. Fattore che differenzia spessore e varietà del vocabolario mentale di cui ciascun individuo dispone, discriminate spietata che segna l’incolmabile divario che passa tra il vedere il mondo in bianco e nero, in scala di grigi, in colori primari o in tutta la poliedrica della tavolozza del pittore.

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Curiosità etimologica

Trottola: due le ipotesi più accreditate dagli etimologisti sull’origine di questa parola (per una sintesi cfr. GDLI s.v.).

Per la prima, trottola sarebbe da riconnettere ad una radice germanica ricostruita *trotton, una forma intensiva del verbo per ‘camminare’.

Per la seconda, la matrice di trottola sarebbe invece latina e da riconnettersi al torquere che in italiano ha dato torcere (per precisione ad un tortulare da tortus connesso con torquere).

Accomuna le due ipotesi la descrittività alla base delle due parole: in un caso per definire la trottola si guarderebbe al suo incedere frenetico e irrefrenabile, nell’altro al ruotare della trottola a velocità intorno al proprio asse.

Dalla prima forma, germanica, deriverebbe anche il trottare e il trotto (dei cavalli); dalla seconda il trottolino / la trottolina con cui si indica affettuosamente il bambino / la bambina molto vivace che non sta fermo / a un momento. Lo stesso trottolino (amoroso, dududadada) cantato qualche anno fa da Amedeo Minghi e Mietta.