“Il riposo del guerriero” del 25 marzo 2012

Aliquid stans pro aliquo, ‘una cosa che sta per un’altra’; ‘elemento di qualunque natura che risulti rappresentativo di una entità astratta’. ‘Segno di riconoscimento’.Segno per eccellenza, la parola può fungere da simbolo (dal gr. symballo ‘metto insieme’) oltre che di ciò cui rimanda con la propria componente logico-concettuale (la parola casa o, più esattamente, la “metà” sensorale della parola casa, la successione di suoni che si odono se pronunciata, o si leggono se scritta, rinviano non ad una casa materiale ma al concetto che si ha della casa, a ciò che si ritiene essere una casa), anche di ciò che una cosa può evocare, del suo carattere, delle sue caratteristiche intrinseche.Tale è il destino di italianità, parola che si rferisce a ‘ciò che ha indole, natura di italiano’. Ciò che viene riconosciuto come italiano, che porta nella propria grana uno o più tratti significativi dell’Italia. Cibo, vino, poesia e città sono tra i simboli universalmente riconosciuti dell’italianità. Tutti esprimibili con parole; parole in grado di evocare molto più che cibo, vino, parole o paesaggi. Perché le parole dell’italianità, come tutte le parole dotate di forte carica emotiva, evocano le atmosfere e le tracce del vissuto che restano “attaccate” a ciò a cui rimandano.

In altre parole, se una parola, se qualunque parola, costituisce un simbolo, ci sono parole che più delle altre hanno una forte carica simbolica. Parole che sono simboli al quadrato. Ecco perciò quelli che un collega e caro amico, Enzo Caffarelli, a cui sono debitrice della denominazione, chiama nomi-garanzia.

Scrive Caffarelli trattando delle diverse modalità della creazione dei nomi commerciali: “Alcune denominazioni caratterizzano più d’un prodotto per semplice coincidenza o per il comune ricorso a nomi entrati nell’immaginario come indicatori di elevati standard qualitativi, oppure di italianità. Le regole del commercio e della pubblicità impongono la ricerca di nomi-garanzia che possano evocare, descrivere il prodotto e, a un tempo, attrarre, rassicurare, fidelizzare il cliente. Tali nomi sono per lo più attinti al repertorio degli antroponimi, dei toponimi o dei soggetti della finzione narrativa: ritroviamo nomi quali Dante, Giotto, Raffaello, Galileo, Firenze, Venezia, Napoli, Colosseo, Pinocchio, Gattopardo, Fellini con Dolce Vita e Paparazzo, divenuti ormai internazionali. L’olio Dante fu così chiamato dalla famiglia Costa che lo fabbricava e lo importava da Genova in America proprio perché destinato a ricordare ai nostri immigrati l’italianità del prodotto”.

Ciò significa che ciascuna di queste parole porta con sé una traccia di ciò che l’Italia rappresenta nel mondo, significa che è in grado di evocare insieme a qualcosa dell’Italia anche la traccia che l’Italia ha lasciato in chi vi è venuto a contatto.

Prendendo spunto dai nomi-garanzia di Caffarelli, cercherò di guardare alcune parole in controluce, come si farebbe con una bancanota, per capire come alcuni di quei nomi propri si siano fatti nomi comuni e poi simbolo di italianità.

In omaggio ad un grande simbolo di italianità, Federico Fellini, racconterò due parole felliniane… da amarcord (1973, dal dialetto romagnolo, sta per ‘mi ricordo’). Le parole sono dolcevita e paparazzo.

Comincerò da quest’ultimo, la cui storia è ben nota e documentata e che è perfetta per l’argomento di questo post, avendo a che fare con i ricordi di un viaggio in Italia scritti da un inglese nel proprio diario. Correva l’inizio del XX secolo quando George R. Gissing raccontò in “By the Ionian sea” (“Sulle rive dello Jonio”), diario di ricordi pubblicato, di aver incontrato in provincia di Catanzaro un albergatore di nome Coriolano Paparazzo. Finito, tradotto in italiano mezzo secolo dopo, tra le mani di Flaiano prima e di Fellini poi, quel libro-diario fornì il materiale onomastico che da subito avrebbe identificato complessivamente i quattro fotografi protagonisti de de “La dolce vita” (di qui la forma al plurale, paparazzi, con cui spesso il nome è citato nel mondo) e poi il solo Mastroianni; assurto il film alla ben nota fama, da allora (1961) in poi paparazzo avrebbe universalmente identificato i fotoreporter, soprattutto se in cerca di scoop scandalistici e perciò petulanti. Caratteristica, questa, ritenuta tanto saliente da ispirare un altro neologismo d’autore, paparazzare, che si deve a Totò.

Quanto a dolcevita, il maglione aderente e a collo alto, la spinta alla coniazione del nome appare fin troppo ovvia, essendo l’indumento indossato dal paparazzo Mastroianni, il pullover, ‘quello che si indossa da sopra la testa’, e che gli inglesi traducono con turtleneck ‘collo da tartaruga’.

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Curiosità

Quando l’italianità va in tavola … la pizza Vesuvio.

Pizza Vesuvio, Olio Dante e magari una varietà di pomodoro Raffaello. Più che oli, pomodori o focacce, sono pezzi di Italia da gustare in tutto il mondo.

E dal pezzo partirò per un gioco che in sé sa di scioglilingua, ma che, dietro l’aderenza dei suoni, nasconde una contiguità anche semantica: pezzo-pizza.

Tra le diverse etimologie attestate per pizza, simbolo indiscusso di “eatitaly”, appare senz’altro convincente e accreditata dalla comunità scientifica quella che individua l’antecedente della parola nel germanico d’Italia bizzo/pizzo ‘morso, boccone’ e più tardi, per l’ovvio instaurarsi di una catena di significazioni collegate, ‘pane, focaccia’.

Una seconda ipotesi, fondata sulla circolazione mediterranea del termine, individuava (l’uso del passato è dovuto al fatto che la matrice germanica dell’antecedente appare ormai consolidata) invece la forma di partenza nel greco pitta, di provenienza albanese: per contaminazione con l’italiano pizzo ‘punta’ la pitta avrebbe acquisito la forma con cui, al solo sentirla pronunciare, addentiamo la parola.