“Il riposo del guerriero” del 9 settembre 2012

Un calembour: un gioco di parole basato su parole scritte in maniera identica ma dal significato diverso, nel nostro caso assai diverso, è quanto mi è subito venuto alla mente quando ho saputo dall’ottimo Giorgio De Luca che l’argomento della puntata di oggi avrebbe riguardato la città.

Mi spiego meglio, anzi mi spiegherò meglio una volta chiarito il presupposto della mia riflessione.

Trattandosi di città, di descrivere la propria città ideale, il proprio modello di città, il pensiero è corso veloce alla genesi di quei progetti filosofici culminati nell’elaborazione, anzi nella vera e propria creazione di città ideali diverse tra di loro ma accomunate – a dispetto delle differenze in termini di cronologia o di origini geografiche dei rispettivi pensatori – dalla distanza dalle città reali.

Il pensiero è corso inevitabilmente veloce a Tommaso Moro (Thomas Moore) l’umanista che, a cavallo tra Quattro e Cinquecento, sulla scorta di tante letture classiche tra le quali quella di Platone e della sua (La) Repubblica, giunse ad immaginare Utopia, un’utopia così ben riuscita da diventare lingua comune, utopia ancora oggi per i molti che anelano un luogo diverso in cui vivere.

Isola-regno abitata da una cività ideale, Utopia come suggerisce il nome è ‘il non luogo’ ma al tempo stesso ‘il buon luogo’, se si gioca con il prefisso che originariamente precedeva il riferimento al topos ‘luogo’.

Se, infatti, dietro a u– si immagina il greco eu– ‘buono’, allora si è di fronte ad una “città buona”, persino ottima, e non all’inevitabile non-città determinata dalla lettura ou– ‘non’.

Che sia supportato o meno dall’evidenza etimologica, sta di fatto che la non città è, anzi è immaginata proprio per essere, una buona città.

Buona perché liberata da tutti i conflitti di natura socio-economica tipici dell’epoca di Moro/Moore ma in fondo anche – forse a maggior ragione – dei giorni nostri.

Quello che però mi preme mettere in evidenza prima di passare a spiegare il calembour che il riferimento alla città mi ha immediatamente fatto venire in mente, vorrei evidenziare un dato connesso ancora una volta con la lingua ma i cui risvolti “concreti” superano il riferimento stesso alla lingua.

La città infatti, in latino civitas (termine che in questo significato specifico ha soppiantato populus), è il punto di arrivo e non il punto di partenza dell’esistenza di cives, di ‘membri liberi (di una città)’ che, riunendosi, pertanto presi come insieme, fanno la civitas, fanno la città.

Insomma, quello che voglio dire è che oggi si è spesso vittime di un errore, di un fraintendimento, che induce a ritenersi cittadini perché ci si riferisce ad una città, quando invece è tutto l’opposto: esiste una città perché esistono dei cittadini che riunendosi, intesi perciò come collettività, danno vita alla città stessa.

Rimesso ordine nel rapprto di causa-effetto tra cittadini e città, passo finalmente al gioco di parole che ha dato titolo a questo post.

Posso riassumere tutta la mia riflessione (linguistica) sulla città dicendo la città dei soli.

Se soli è inteso come plurale di sole, quello che risplende in cielo, l’interpretazione de la città dei soli emana, è il caso di dire, l’immagine di una città che dovrebbe essere ad esempio soliva ‘soleggiata, solatia’ (da una voce del lat. volg. solivus derivata da sol ‘sole’).

Se però soli è il plurale dell’aggettivo solo (seguito dal suffisso di origine germanica che si ritorva in casalingo), allora la città è, come spesso accade, solinga ‘lontana dalle vie di comunicazione, distanziata da altri edifici, desolata, abbandonata; che conduce una vita solitaria, ritirata, etc…’.

Chi vive in questa città si trova spesso a soliloquire ‘parlare da solo’, ad avere atteggiamenti e stili di vita solipsistici ‘incentrati su se stessi’, sulla propria singolarità (intesa come essere singoli); a condurre una vita solitaria (o soletaria), da solivago ‘che vaga da solo, che ha abitudini solitarie’; a sperimentare le vie della solitudine o solitarietà, con una forma più antica e meno nota indicante lo stesso significato.

Come superare questo stato di cose – quello attivato dalla duplice lettura di soli – in cui il riferimento a solo supera inevitabilmente quello a sole?

La risposta potrebbe trovarsi anche in questo caso nei soli, con i quali continuerò a giocare, ma stavolta alludendo più genericamente a sol-: la città, ideale e non, anzi la città e basta, dovrebbe essere solida, solidale, solidarista, solerte, solenne; in sintesi solima (o sollima) allotropo popolare di sublime, aggettivo che indica ‘ciò che sta in una posizione superiore; eccelso, sublime (anche con valore enfatico)’.