“Il riposo del guerriero” del 2 dicembre 2012

In attesa dello scioglimento della prognosi del febbricitante PdL, dalla quale potrebbe conseguire l’indizione di elezioni primarie o la ri-discesa in campo del sempiterno Berlusconi – possibilità entrambe foriere di discorsi che, tanto nell’uno tanto nell’altro caso, andremmo a commentare – Senti chi parla assumerà le fattezze provvisorie di Guarda come scrive.

Ciò che faremo oggi è presentare con spirito critico alcuni titoli di articoli giornalistici scelti tra tanti che difficilmente potrebbero passare inosservati a chi si appresti alla lettura di un quotidiano anche con fini linguistici.

Lo faremo non tanto o non solo per presentare dei casi di ordinari orrori quotidiani frammisti a qualche curiosità, ma per riflettere sulle modalità che spingono chi scrive ad operare le proprie scelte.

Il primo che prenderò in esame, che è anche l’unico su cui mi dilungherò è

Guccini «endorsa» Bersani: «E’ concreto, l’uomo giusto».

Primarie, dopo Jovanotti che ha scelto Renzi, un’altra icona della musica italiana si schiera.

Così un titolo apparso nella prima pagina di corrieredella sera.it una manciata di giorni fa. Vi spicca, anche per ragioni di posizione, l’orribile neologismo endorsa, probabilmente preferito ad altre soluzioni perché ritenuto di maggiore presa e brio. Che sull’orribile neologismo pesi una chiara opacità che ne smorza l’efficacia, ammesso che in principio ne avesse per il solo fatto di essere nuovo e di ammiccare all’estero, è manifesto da almeno tre ordini di ragioni.

Innanzi tutto senza la frase successiva, che funge da catenaccio, non si capirebbe il significato del titolo; in secondo luogo ci sono le virgolette poste lì a segnalare al lettore che “endorsa” rappresenta qualcosa che si distacca dalla norma, dal noto; terzo, ma non ultimo per rilevanza, endorsa o altre forme del verbo derivato dal nome endorsement non compaiono nell’articolo interno al giornale (il titolo lì recita infatti Guccini spinge Bersani).

La familiarità spacciata per il termine è perciò solo di facciata.

Quanto a endorsement, alla base del verbo endorsare che si vuole far passare per italiano, va detto che si tratta di un termine impiegato non solo in questioni di politica (noi italiani lo abbiamo iniziato a sentire nei servizi per la corsa alla presidenza degli Sati Uniti, quando, ad esempio, c’è stato il The New Yorker’s endorsement of Barack Obama) poiché indica, in generale, ‘l’approvazione, l’appoggio, il sostegno’ e, con significato più specialistico, ‘la girata di un assegno’ o, ancora, quello che in italiano si indicherebbe con ‘multa’ comminata ad un automobilista (http://www.wordreference.com/enit/endorsement).

Attraverso i canali del linguaggio tecnico della pubblicità, in italiano, ma anche in spagnolo e in altre lingue, si è inoltre diffuso endorser ‘l’approvatore’, nell’accezione però più ristretta di ‘colui che stipula un accordo di esclusiva con una ditta per l’impiego dei suoi strumenti, per lo più musicali’.

A dispetto di queste considerazioni, ma anche a dispetto della necessità di munirsi di virgolette, occorre d’altra parte rilevare che la circolazione del termine, benché recente, è indubbia. Lo sa bene Matteo Renzi, il Fantastico (dei 5) ancora in lizza per il leaderaggio del centro-sinistra e per il premierato del prossimo Governo, termometri, questi leaderaggio e premierato in tondo e senza virgolette, dell’integrazione nella nostra lingua di forme che sembrano aver ridotto al dimenticatoio i nostrani capo, guida e financo presidente.

Dicevo, però, di Renzi, la fattura della cui comunicazione è senz’altro improntata alla ricezione e al riuso di forme ritenute di grande presa sul destinatario, Matteo Renzi, esattamente una settimana fa, a commento di quanto affermato da Susanna Camusso, affermava «Per il bene della Cgil e dell’Italia, e del Pd, spero che arrivi presto il giorno in cui il segretario della Cgil non interviene il giorno delle elezioni, a urne aperte, in una televisione pubblica, per endorsare al contrario un candidato».

Che conclusione trarne? Endorsare, che sia al dritto o al rovescio, che sia nella direzione che ci si aspetta oppure al contrario, è termine ancora straniero ma nei cui confronti i linguaggi della comunicazione mediata esercitano una spinta all’assuefazione, ad una rapida assuefazione da parte almeno di una certa fetta di parlanti italiani; una spinta che contrastabile solo dai parlanti stessi che, con il non uso, potrebbero sancirne la marginalizzazione.

Altro titolo, altro neo-logismo.

Nella ‘Cristoteca’ si prega meglio.

Avvicinare i giovani alla religione grazie alla musica dance e alle luci stroboscopiche. E’ quello che sta facendo in Brasile il padre (e dj) Zeton, convincendo decine di ragazzi. Ma non mancano le critiche dei più ortodossi.

Anche se ha fatto parlare di sé solo prima dell’estate, il termine e più ancora la cosa cristoteca sono sbarcati in Italia e in italiano già da tre anni.

Neologismo di tutt’altra pasta rispetto ad endorsa, cristoteca indica quella particolare discoteca in cui si ballano brani religiosi rivisitati in chiave tecno, house, hip-pop o dance.

Non a caso i giornali che hanno fatto rimbalzare la notizia del prete-dj brasiliano hanno cavalcato la chiave definitoria de ‘il luogo in cui si balla con Gesù’; a differenza del caso precedente qui non mi sentirei di condannare il neologismo, tutt’altro. Ha infatti pregnanza ed è trasparente, almeno quando, superato il primo momento, quello in cui ci si chiede se sia possibile o se non si tratti, invece, di una speciale teca, concettualmente più affine a Cristo.

Notiziabilità a parte, non mi sembra molto probabile una circolazione del termine nell’uso: che facciamo sabato? Andiamo in cristoteca?

Considerazioni analoghe si potrebbero fare anche per

Stop italiano ma arriva il Cina-panettone.

Dal cine-panettone al Cina-panettone. Il nuovo progetto di Aurelio De Laurentiis guarda a Oriente. Dopo gli incassi in discesa di Natale a Cortina , il produttore si ferma a 28 con il ciclo delle «Vacanze a». Ma ha in mente di creare un franchising per l’estero.

e per

Missione “tato”: apre ai maschi il college di Bath.

Michael Kenny, 18 anni, sarà il primo nella storia del Norland Nanny Institute a laurearsi nell’arte di Mary Poppins.

Ancora più attuale è la terza tipologia di neologismo che vado a considerare

Ecco la nomofobia, così si chiama la paura di perdere il cellulare.

Ne soffre il 66% della popolazione secondo uno studio britannico, con un aumento del 13% rispetto a quattro anni fa.

Di acquisizione recente, si tratta infatti dell’adattamento di un anglismo ancora non registrato nella lessicografia ufficiale inglese (è invece repertoriato nelle varie technopedie e web-pedie, altri neologismi creati a uso e consumo dei fruitori della rete), nomofobia nulla ha a che vedere con nomos, parola greca significante ‘consuetudine’ e da molti resa con ‘legge’.

La nomofobia non è dunque ‘la paura della legge’, che non va di moda neppure nei dizionari, è bensì la ‘paura di restare senza cellulare’: no mobile e phòbia sono le tre parole che, attraverso due passaggi, hanno fornito la sostanza (semantica) a questa neoformazione, di recente – affiancata da Crackberry», il controllo ossessivo dello smartphone per verificare l’arrivo di nuovi sms, proprio ieri a titolo di un articolo del Corriere.

«Crackberry», il controllo ossessivo dello smartphone è una vera dipendenza.

Maneggiare il telefonino per vedere se arrivano sms è una patologia e rischia di rovinare le relazioni.

Ci si potrebbe allora chiedere, recuperando un altro titolo:

Technophile o technophobe? Chi ha paura della tecnologia.

Certo non gli esponenti dell’attuale Governo o chi ne riferisce l’operato, almeno stando a

La moral suasion di Monti sulla golden rule. Così il premier punta sulla banda larga.

La scommessa: «Investimenti per ridurre il digital divide esclusi dal Patto di Stabilità europeo». Ma l’emendamento ad hoc è stato già bocciato dal rigorismo.

O anche a

FORNERO TREND SETTER. Trend setter è stata, appunto, la titolare del Welfare, con l’infelice uso d’un termine colloquiale diventato in poche ore tormentone sui social media.

Per rendere con chiarezza il fatto che con questo mio intervento non ho inteso portare avanti una battaglia sotto mentite spoglie contro gli anglismi che anche quando non necessari si impiegano a scapito dei corrispettivi e consolidati termini italiani (tanto meno contro i neologismi, battito vitale della lingua), chiuderò questo intervento con alcune considerazioni che traggono spunto dall’ennesimo titolo

Casalinghe sempre più scoraggiate. E se gli uomini aiutassero di più in casa?

[…] la casalinghitudine è diminuita solo del 5,9 per cento in tutto il Paese, mentre in alcune zone è addirittura aumentata.

Il termine cui mi riferisco è, come prevedibile, casalinghitudine, e la considerazione guarda, ancora una volta, all’esigenza del parlante di contemperare necessità di essere compresi ed esigenza di espressione della propria soggettività. Incontro dal quale può scaturire casalinghitudine quando essere casalinghe appare insufficiente a rendere nella sua essenza più profonda la condizione che si sta cercando di descrivere.

Per chiudere con una battuta, fornita involontariamente dal sito di Trenitalia in risposta alla richiesta di prenotazione di un posto su un treno precedentemente selezionato, e immaginando di poter sostituire al treno parole quali endorsa c’è da augurarsi una risposta del genere

Codice di errore: 439 Prenotazione non possibile. Il treno è inibito.