“Cose dell’altro Geo” del 13 marzo 2013
Parole, parole parole… ma cos’è una parola? Sembra una cosa ovvia, perché tutti la sappiamo riconoscere, ma quando proviamo a definirla improvvisamente ci sembra complicata
E’ proprio così, a seconda del punto di vista adottato il risultato cambia, e di punto in bianco sembra che non sia possibile definire la parola in modo univoco.
Se guardo a come si scrive nella cultura europea, allora dirò che una parola è quanto compreso tra due spazi bianchi; ma se cambio cultura (penso all’India, ad esempio, o alla Cina, in cui si usano logogrammi, rappresentazioni di idee) o se guardo anche solo alla tarda antichità e al medioevo per quanto riguarda la nostra cultura, mi accorgerò che le frasi si scrivevano senza interruzione tra una parola e l’altra (scriptio continua). Se adotto lo stesso criterio nell’oralità e penso che sia parola ciò che è compreso tra due silenzi, allora mi accorgerò subito che è parola tutto quello che pronuncio senza riprendere fiato.
Se invece guardo al significato, partendo dal presupposto che la parola veicola un concetto, come devo considerare ferro da stiro? una parola o tre? e non ti scordar di me (il fiore)? e parole come capostazione, il cui significato è complesso e articolato, come le considero? Senza entrare nel dettaglio, diremo che ci sono tante definizioni di parola, tutte corrette ma nessuna in grado di comprendere anche tutte le altre.
Come si concilia il fatto che il parlante ha l’impressione di sapere fin da piccolo cosa sia una parola con tutta questa varietà di definizioni possibili?
Della parola, come di altri importanti concetti connessi con la nostra capacità di comunicare e di farlo principalmente, anche se non solo, attraverso la lingua, il parlante ha una concezione ingenua ma comunque valida. Al linguista e a studiosi di altri discipline può interessare ritagliare in una definizione il significato di parola, ma per il parlante non c’è questa necessità. Ciascuno di noi, tra l’altro, sa bene se una parola della propria lingua sia ben fatta, ben costruita oppure no. Detto in altri termini, ciascuno di noi sa se una successione di suoni costituisca una parola dell’italiano oppure no anche senza che gli sia stato spiegato. Nessun italiano penerebbe che rpima sia una parola italiana. Penserebbe a un errore nella pronuncia di prima, ma non ad una nuova parola italiana per via della violazione di una sorta di regola che impedisce ad inizio di parola di mettere rp in successione.
A proposito di parole che sappiamo non essere italiane e che gli italiani usano, magari dopo averle sentite usare nei giornali, che possiamo dire. Che sono italiane oppure no?
E’ tutta una questione di momento a cui si riferisce l’osservazione. L’italiano, come ogni lingua, può arricchire il proprio vocabolario ricorrendo a parole straniere o a recuperi dalle lingue classiche o da strati più antichi di se stesso (oggi potremmo iniziare a recuperare una parola dell’italiano di alcuni secoli fa, come vescicante, ad esempio, per dire a qualcuno che è fastidioso come una vescica).
Nel momento in cui quella parola, in principio estranea al sistema linguistico italiano contemporaneo, inizia a essere usata dalla comunità linguistica e magari a dare vita ad altre parole formate a partire da essa, allora in riferimento all’origine potremo dire che è straniera, forestiera, ma in riferimento all’uso e alla percezione che ne hanno i parlanti no. Pensiamo a bar o a stop. Chi di noi si sente di dire che non sono parole italiane?
Ma è proprio necessario usare parole forestiere? Era proprio necessario parlare del compound per indicare la residenza di Bin Laden? Non si sarebbe potuto usare il termine residenza, rifugio o un altro?
Certo, ma qui entrano in gioco dinamiche non linguistiche i cui effetti si ripercuotono sulla lingua. penso alle mode, alle politiche linguistiche, al prestigio riconosciuto alla lingua di una diversa società. Attenzione però a non pensare che si tratti di un problema solo della nostra lingua o solo di quest’epoca. Ma questa è un’altra storia…
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