“Il riposo del guerriero” del 26 maggio 2013
Connesso con il cernere alla base anche di discernere e di concernere, segreto è la continuazione del participio passato latino del verbo secerno (secernere), grosso modo ‘messo da parte’, derivato di cernere.
Cernere a sua volta era connesso con la parola per setaccio, affinità che conferisce al verbo il significato di ‘passare al setaccio e quindi scegliere’.
Segreto è, come ho detto, la continuazione del participio latino secretus, che l’italiano ha mantenuto anche in secreto, con la c, forma colta, dotta, con la quale si indica il prodotto emesso da una ghiandola, il frutto di una secrezione.
Siamo perciò di fronte a un caso di quella che i linguisti chiamano allotropia, ovvero uno sdoppiamento di un unico termine originario che conduce, con il tempo, a due termini distinti e non sempre di significato affine, come nel nostro caso.
Altri esempi di allotropi di uso comune sono nitido e netto, vizio e vezzo, grotta e cripta.
Tornando al segreto, a ciò che in principio coincide con ‘ciò che è messo da parte’, nell’antico italiano attestato anche nella forma secreto, si tratta di una parola ricchissima di storia, impiegata in ogni tempo con sfaccettature di significato diverse e anche per dare vita ad altre parole da essa derivate o a modi di dire su di essa incentrati.
È il caso di segreto come un dado, con cui si indica chi non è in grado di mantenere un segreto.
I dizionari riportano due voci segreto. La prima, a cui si riferisce il modo di dire che ho appena detto, guarda a segreto come aggettivo; la seconda come sostantivo, sul quale si sarebbero formate locuzioni quali essere nel segreto di qualcosa (e non al segreto) per indicare il fatto di essere partecipi di una cosa nota a pochi; portare o portarsi un segreto nella o alla tomba, locuzione abusata di recente in occasione della morte di Giulio Andreotti; tenere i segreti come il paniere o tenere i segreti come il vaglio l’acqua dello stesso significato di segreto come un dado visto prima.
Per quanto riguarda i derivati ne abbiamo di noti e di meno noti: tra i primi segretume, spregiativo come tutti i nomi in –ume, tra i secondi segretista per ciarlatano nel senso di persona che millanta o presume di conoscere segreti di grande importanza, risolutivi, tra quelli che si pensa di non conoscere e che invece si usano benché sotto mentite spoglie segretière, probabilmente rifatto su secrétaire, ‘segretario’ in francese.
Quanto a segretario si tratta di una voce latina medievale con la quale si indicava il collaboratore di fiducia dell’imperatore, messo a parte di cose note a pochi.
Il prestigio che connota fin da subito questo termine continua fino ai giorni nostri e ne è riprova la distanza che lo separa da segretaria, non a caso distinta da segretario, messa a lemma al femminile e soprattutto da questo ottenuta per un “semplice” cambio di genere che però si trascina dietro una realtà ben diversa. A differenza di quelle del segretario, le mansioni della segretaria sono infatti di tipo esecutivo, burocratico. Almeno nell’accezione moderna, novecentesca.
A onor del vero bisogna infatti riferire che il termine segretaria in passato, parlo di secoli fa, era impiegato per denominare colei cui erano affidati incarichi riservati e anche la depositaria di segreti amorosi. La confidente. Questo scarto di significato si comprende bene ricordando il valore originario del temine, destinato a sbiadirsi al punto tale da rendere abbastanza difficile, al di fuori della ricostruzione etimologica, l’accostamento di un segretario o di una segretaria al segreto.
Ci sono però altri modi di intendere il rapporto tra la lingua e il segreto.
Penso ad esempio alle lingue segrete: a quelle dei bambini, in particolare dei gemelli, che per comunicare tra di loro sviluppano una lingua criptica per gli altri e che mantengono anche una volta acquisita la lingua della comunità in cui crescono. Una lingua che, tra l’altro, per via di forti proprietà comuni, è da alcuni studiosi della lingua accostata al grammelot, argomento trattato in un precedente post.
Altrettanto segreta è lingua dei carcerati, argomento, una decina di anni fa, di un libro-glossario curato dai detenuti di San Vittore, da cui estrapolo uno dei termini gergali con la relativa spiegazione:
“Tra le parole più strane c’è Avere l’erbetta. Significa: ‘Avere l’ergastolo, essere al fine mai pena. La sua origine è dovuta ad un gioco di parole sull’abbreviativo di ergastolo, erga, poi trasformato in erba. Evoca l’immagine della monotonia che accomuna i fili d’erba e i giorni di detenzione di un ergastolano'”.
Ancora un libro ha diffuso la conoscenza, rinfocolandola, in Cina e al di fuori, di una lingua segreta scritta, quella delle donne dello Hunan, per l’appunto cinesi, che, per esprimere la propria creatività elaborarono una forma di scrittura basata su criteri diversi da quelli della scrittura tradizionale (logografica).
“Duemila caratteri pressocché curvilinei: ognuno corrisponde a una sillaba (e non a una parola) anche se si tratta di alfabeto cinese. Sì perché qui siamo in Cina, nella provincia meridionale dello Hunan, nel 1600. Le donne della minoranza etnica Yao, oltre al dolore dei piedi fasciati, vivono quello di rimanere fuori dalle aule scolastiche: represse dalla società confuciana (e quindi maschilista), si sfogano con la creatività”.
Nu shu, letteralmente ‘scrittura delle donne’, è il nome di questa lingua che nel 1995 è stata annoverata nel patrimonio mondiale dell’umanità e che più di un decennio dopo, nonostante la morte dell’ultima sua utente attiva, la pubblicità è riuscita a resuscitare facendone un’espressione “di un nuovo femminismo d’élite e all’apparenza frivolo”.
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