“Il riposo del gueriero” del 23 giugno 2013

Ripercorrendo con la mente quel decennio appare impossibile non pensare che la diffusione massiccia nel computer nelle nostre case non abbia costituito una delle tendenze che più hanno segnato quegli anni.

E conseguentemente la lingua di quegli anni, nel nostro caso l’italiano, che, come sempre accade quando ci si trova a confrontarsi con una innovazione proveniente dall’estero, per riferirsi a quell’innovazione ha due vie. Quella che guarda al di dentro e quella che guarda al di fuori. Spesso le due vie finiscono per incontrarsi così che qualcosa che in partenza era estraneo finisce per integrarsi al punto di diventare autonomamente produttivo, e dunque parte integrante del tessuto (linguistico) un tempo ospitante.

Vado a spiegarmi meglio.

Correva il 1995, più precisamente l’inizio di settembre, una data che sarebbe stata immortalata dai giornali con titoli quali «Arriva Windows ‘95. I negozi aperti fino alle 3 di notte». Continuando a leggere l’articolo del Corriere della Sera del quale ho appena riferito il titolo si legge: «La “notte delle finestre” comincia stasera alle 22 e terminerà domattina alle 3: negozi aperti, gadget e rinfreschi accolgono sul mercato informatico l’ arrivo di “Windows ‘95”» (3 settembre 1995).

Non può certo passare inosservata, oltre alla stonatura per il mancato accordo temporale tra comincia e terminerà, la pompa magna che accompagno, all’epoca, il lancio di un software, un termine che in inglese comincia a circolare intorno alla metà dell’Ottocento per indicare un “oggetto leggero”. Soft wares erano infatti detti i tessuti di lana o di cotone e per estensione i beni di consumo relativamente deperibili (Etymonline.com).

Formato per analogia su hardware, ‘ferramenta, minutaglie di metallo’, software acquisisce lo statuto di termine dell’informatica a partire dagli anni Sessanta del Novecento, un’accezione che in breve tempo finisce per fagocitare ed eclissare quella originaria. Curioso, per chi ha interesse per la storia della lingua, in questo caso inglese, che l’elemento ware alla base del composto nel Settecento fosse impiegato anche in funzione di sostituto eufemistico per l’organo sessuale femminile. Insomma ware era uno dei tanti modi con cui si chiamava la cosa, in questo caso in modo scherzoso.

Tornando a bomba, dicevo che gli anni Novanta si sono caratterizzati per essere anni di mela e di finestre. Anni in cui la holy war informatica, la ‘guerra santa’ imbarcava fedeli con una facilità che sarebbe stata impensabile fino a pochi anni prima.

IBM o più genericamente PC (a riprova della capillarità con cui ‘piccolomorbido’ ovvero Microsoft ha investito il mercato) contro Mac diventa il modo con cui nella ‘rete-ragnatela’ ovvero il web in via di espansione si confrontano utenti-fedeli ai quali ci si riferisce nel primo caso con PCisti o windowssisti e nel secondo con Mcisti o più spesso melomani, termine che a partire da quel momento non si riferirà più alla sola musica (cfr. melomane).

La parola melomane mi offre però il gancio per riprendere la questione dell’integrazione, a cui ho fatto riferimento poc’anzi.

Benché in principio stranieri, agli innumerevoli termini che hanno accompagnato la diffusione nelle nostre case dei ‘computatori-calcolatori personali’ i personal computer, evoluzione degli antichi sassi usati per contare – ‘sassolino’ è infatti il significato della parola latina alla base di calcolare, calculus) – ci siamo così abituati da farli nostri, da farli italiani.

Ne sono conseguiti, in ordine sparso, chattare da chat, doppione di chiacchierare ma specializzato per la chiacchiera digitale, scaricare o downloadare da download, con scaricare impiegato in un contesto decisamente diverso da quello dei mercati o dei porti e il suo contrario uploadare o caricare da upload.

Attachare da attachment, concorrente dell’italianissimo allegare (e allegato) e zippare per ‘comprimere’ la grandezza di un file (da zip un programma preposto a questa funzione).

Vado a chiudere con digitale, a proposito del quale vale la pensa di ricordare che si tratta di qualcosa che da sempre è parte di noi. Digitus è infatti il dito, parola che in latino aveva fatto da base proprio al verbo digitare il cui significato era però di ‘indicare con il dito’ (nella musica è rimasto in forma italianizzata, diteggiare), un significato completamente soppiantato, nelle nostre menti, dall’azione di battitura su una tastiera, ambito nel quale scrivere il dominio di scrivere è contrastato.

Vorrei ora spezzare una lancia a favore della scelta di non italianizzare ‘il topo’, soprattutto ricordando gli effetti della traduzione letterale del noto foglietto di istruzioni che accompagnava anni fa la distribuzione dei mouse IBM. Tradotti letteralmente, i termini riferiti al mouse–topo finivano per generare, nel caso delle parti di ricambio, le palle del topo corredate di doviziose istruzioni che differivano a seconda della provenienza del topo stesso.

Chiudo pertanto con una provocazione. Praticata sistematicamente anche nei confronti dei termini del latino, lingua altra rispetto all’italiano benché suo antecedente, la stessa pratica avrebbe portato a chiamare topini i muscoli delle braccia.

Possono tirare un sospiro di sollievo i tanti frequentatori di palestre…