“Il riposo del guerriero” del 14 novembre 2011

Per definizione onnivora, la pubblicità si ciba della realtà e dei linguaggi che servono ad esprimerla e per questa ragione si prospetta, a chi voglia cercare di descriverne meccanismi e parti costitutive, tanto vasta da imporre a monte delle scelte su cosa sugli argomenti da trattare.

La nostra scelta è di servirci della pubblicità di una lente che possa facilitare la lettura di uno spaccato della cultura italiana degli ultimi cento anni. Servendoci della pubblicità potremo

– Descrivere uno spaccato della società italiana (o anche più spaccati, variando il periodo di riferimento)

– Descrivere i cambiamenti della società italiana dagli inizi del Novecento ad oggi

– Cercare di capire come è cambiato il rapporto tra gli italiani e il consumo

– Analizzare come siano cambiati i comportamenti sociali e come questi cambiamenti siano stati recepiti a livello collettivo dando vita a nuovi stereotipi (tra i più significativi: il ruolo della donna e quello della famiglia)

Se infatti da una parte la pubblicità prende spunto dalla realtà, che rappresenta, dall’altra crea una nuova realtà che il mondo, la Realtà, va ad imitare.

O almeno così è stato negli ultimi decenni; in origine e almeno fino post boom economico, la pubblicità aveva connotati del tutto diversi da quella attuale e la differenza tra le tendenze dominanti in queste epoche può essere sintetizzata affermando che mentre la prima vendeva prodotti, la seconda vende atmosfere. Ci ritorneremo più avanti, parlando del rum “bevuto nei peggiori bar di Caracas”.

Già da queste poche battute ci si rende conto della vastità di questo fenomeno, vastità che imporrà una ovvia selezione degli argomenti proposti.

Per cominciare una questione di terminologia: ci chiederemo cosa sia la pubblicità e che rapporto abbia con la réclame e con la propaganda. La lingua è infatti molto più che una nomenclatura, una serie di etichette, da applicare alla realtà ed è perciò verosimile che questi termini, in apparenza sovrapponibili, evochino invece realtà diverse o siano il prodotto di culture diverse

Pubblicità (nel significato che ci interessa di ‘propaganda’ lo si trova attestato dalla prima metà del XVIII sec; con significato di ‘essere pubblico, accessibile al pubblico’ si trova da almeno 2 secoli prima. L’italiano lo riprende dal francese.)

Réclame (dal fr. réclame ‘richiamo’, della prima metà del XVIII sec., la stessa epoca di pubblicità; in italiano la prima attestazione sembra essere in I. Nievo nel 1858 – Confessioni di un italiano); pubblicità, propaganda commerciale

Propaganda, gerundio di propagare, attestato già nella seconda metà del Settecento. Indica una azione volta a influenzare l’opinione e il comportamento di un pubblico vasto per lo più in riferimento a ideologia, politica, religione. Nell’italiano dell’uso il termine è impiegato come variante di pubblicità, promozione di un prodotto commerciale. Il Cinegiornale incarna perfettamente queste caratteristiche, con prevalenza dell’intento propagandistico del primo tipo in una prima fase, coincidente con l’era Fascista, e del secondo nel dopoguerra, in particolare negli anni Cinquanta e Sessanta.

Ultimo arrivato di questa famiglia è invece

Advertisement (è il termine più recente, si origina e diffonde nell’ambito di un linguaggio tecnico intorno alla metà del Novecento. La matrice è ovviamente anglofona. Lo si trova anche abbreviato in Ad).

COS’È E CHE SCOPO HA

“La pubblicità è una tecnica multidisciplinare che sfrutta la comunicazione persuasiva e seduttiva con il fine di promuovere i consumi, ed è essenziale studiare, di ogni messaggio pubblicitario, gli elementi linguistici che lo compongono, se si vuole entrare nel segreto delle tecniche comunicative e scoprire quale fascino debba avere una pubblicità per attirare l’attenzione e quindi convincere all’acquisto un probabile cliente.” (fonte http://www.horuscommunication.it/ – Agenzia pubblicitaria).

Questo insieme di tecniche è volto a richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica e dei potenziali acquirenti su un qualcosa che si vuole promuovere: dunque costituisce un ponte tra l’oggetto e il consumatore: “fa leva sulle cariche simboliche ed emozionali dei prodotti, e non si limita più ad informare […] ma mira piuttosto a sedurre l’acquirente, a conquistarlo” (F. Iannucci, La comunicazione pubblicitaria, in S. Gensini (a cura di), Manuale della comunicazione, Roma 2002, pag. 364).

GLI STRUMENTI DI CUI SI AVVALE

Nel far questo si avvale di numerosi apporti che vanno dalle strategie del marketing mix, combinazioni di variabili di marketing ritenute funzionali per il raggiungimento dei propri obiettivi (quelle tradizionali sono 4: product/prodotto, price/prezzo, place/punto vendita, promotion/promozione) alle indagini sociologiche, volte all’individuazione del target/destinatario inteso come fascia di consumatori migliore per il proprio prodotto, dalle procedure affidate a professionisti quali copy-writers, disegnatori, art directors, allo studio delle implicazioni culturali valutate da critici di costume. La pubblicità assomma quindi in sé un insieme di caratteristiche così eterogeneo da richiamare l’attenzione di discipline assai diverse per presupposti, orientamento, interessi.

Pur nella varietà degli schemi e delle strategie impiegate, tutte le comunicazioni pubblicitarie presentano alcune caratteristiche comuni: tutte cercano infatti di identificare con la massima precisione 1) il proprio target; 2) il vantaggio che può ricavare il consumatore scegliendo prodotto da reclamizzare (nel gergo dei pubblicitari questo vantaggio si chiama consumer’s benefit); 3) la promessa principale fatta al potenziale acquirente (main promise); e 4) il linguaggio (o meglio i linguaggi), la materia che sostanzierà l’atmosfera prefigurata per la propria comunicazione, rendendola efficace.

Il fenomeno della pubblicità dunque per la sua complessità e per la natura composita, è passibile di indagine da diverse prospettive di studio: quelle economica, antropologica o sociologica, strettamente pubblicitaria o, ancora, linguistica sono le principali.

IL RUOLO DEL LINGUAGGIO VERBALE E DEI LINGUAGGI NON VERBALI

Tutt’altro che marginale per la riuscita di una campagna e per la capacità di presa sul pubblico è il ruolo della lingua, da intendersi come effettiva selezione e combinazione di elementi cui affidarsi per la realizzazione del messaggio; un ruolo che ha raggiunto la massima espressione soprattutto in passato, quando le tecnologie non consentivano di realizzare quanto più recentemente reso possibile dalla multimedialità ovvero da una pluralità di mezzi e conseguentemente di linguaggi variamente dosabili in funzione del progetto comunicativo che si intende realizzare. Si pensi allora all’apporto delle immagini, della musica, di entrambi questi elementi, insieme, nei filmati, oltre che alle specificità connaturate ai diversi mezzi/media stessi impiegati per comunicare.

Un peso tale da far affermare a Marshall Mc Luhan già nel 1964 che “Il mezzo è il messaggio” teorizzando precocemente quanto correttamente l’essenza di un villaggio globale ovvero di un mondo riducibile concettualmente alle dimensioni di un solo villaggio per via del livellamento – in termini di perdita di specificità culturali in senso ampio – esercitato dall’elettronica

(in: “Gli strumenti del comunicare” – edizione originale “Understanding media: the extensions of man” 1964, cui tre anni dopo fa seguito proprio “The medium is the message”).

Curiosità: Mc Luhan interpreta se stesso nel film “Io e Annie” di Woody Allen: si materializza in fila al cinema e bacchetta un intellettuale professore universitario che pontifica citando l’opera di Luhan per avvalorare le proprie tesi

Un caso da cui emerge l’importanza del medium impiegato in termini di condizionamento da esso esercitato sulla stessa elaborazione del messaggio è quello della campagna Tiscali di alcuni anni fa, in cui si reclamizzava l’abolizione del canone da parte del gestore sardo.

La campagna a cui mi riferisco è quella, minimalista, per cartellonistica e web, per l’esattezza per finestre a comparsa (pop-up). Pensata, cioè, per essere guardata e letta. Ridotti al minimo erano gli elementi costitutivi del messaggio, che dal punto di vista visivo si presentava su sfondo completamente bianco e ripartito concettualmente in due sezioni orizzontali, disposte una sull’altra: nell’area inferiore il solo elemento presente era un cane munito di un collare ben visibile la cui estremità spingeva l’occhio del lettore fuori dai limiti dell’area del messaggio; in quella superiore campeggiava una scritta, in viola, seguita da un paio di forbici.

Nella scritta, viola come il marchio, TAGLIA IL CANONE, la sillaba centrale, NO, scritta in un carattere più grande delle restanti e in grassetto, attivava una rilettura di tutto il messaggio il cui significato complessivo si costruiva, per coppie di elementi, proprio grazie all’insistenza dell’occhio sulla sillaba NO: canone-NO, forbici(immagine)-taglia, cánone-canóne (perché il cane era di grossa taglia). L’ultima coppia attivava inoltre un movimento dell’occhio dall’alto verso il basso in corrispondenza della sillaba in prominenza ricreando in tal modo l’illusione di una T, la T iniziale del marchio della compagnia telefonica.

È evidente che una campagna così concepita sarebbe impensabile per un mezzo con modalità di fruizione diverse da quelle tipiche della cartellonistica, tendenzialmente più semplice perché basata su dimensioni e immagini fisse e, preferibilmente, necessitanti di poche parole.

LO SPOT, UNITÀ MINIMA DELLA PUBBLICITÀ

Quando si parla di pubblicità ai nostri tempi, il formato che però con ogni probabilità viene alla mente è lo spot “animato”, sorta di unità minima di riferimento i cui tratti distintivi  fondamentali sono: il testo linguistico, quello iconografico e filmico, quello musicale e, ovviamente, il brand, il marchio da pubblicizzare che ha reso possibile l’esistenza stessa dello spot.

Innanzi tutto, ancora una volta, una digressione terminologica: con

Spot, forma abbreviata per spot pubblicitario, dall’inglese spotlight ‘riflettore’ (per accorciamento), si indica un filmato solitamente di 30 secondi (o di suoi multipli).

L’uso di filmati a scopo pubblicitario inizia a diffondersi negli USA tra 1940 e 1950 (il primo ad essere mandato in onda fu quello della Bulova del 1941, recitava: “America runs on Bulova time” e rappresentava la mappa degli USA su cui si andava a distendere l’orologio).

Se ben riuscito, lo spot si configura, metaforicamente, come un piatto in cui la buona esecuzione della ricetta si è avvalsa anche di ingredienti di qualità. Fondamentale, in questo ruolo, è senz’altro lo

Slogan, da una parola inglese che riprende però un termine scozzese più vecchio di alcuni secoli significante, grosso modo, ‘grido di guerra’. L’italiano lo prende in prestito ad inizio Novecento per indicare ‘una formula breve e facilmente memorizzabile usata a fini propagandistici o pubblicitari’. Gli slogan hanno di solito un carattere descrittivo o persuasivo e hanno come obiettivo quello di rendere immediato ai consumatori il significato della marca, ovvero mettere in evidenza quello che è il valore differenziale del marchio.

Il peso dello slogan in uno spot – e più in generale in una campagna pubblicitaria – lo si evince immediatamente dalla capacità di far scattare nella mente di un individuo una sorta di completamento automatico al solo sentire il nome commerciale in esso contenuto.

Altrimenti detto, la forza dello slogan si misura dalla capacità dello slogan stesso di farsi lingua comune. È possibile provare empiricamente su di sé questa situazione.

(Curiosità: nella stessa famiglia troviamo i derivati sloganicamente, sloganico (‘caratterizzato, influenzato da slogan’), sloganista, sloganismo ‘frase che ricalca uno slogan’, sloganistico ‘proprio di uno slogan’).

OLTRE LO SPOT: QUANDO LA PUBBLICITÀ SI FA LINGUAGGIO COMUNE

Non è necessario sapere di cosa si tratti – in questo caso di una famosa passata di pomodoro – per concludere l’enunciato:

O così…. O POMÌ

Ancora, se qualcuno dice VIM, è probabile che qualcun altro risponda (VIM) senza pietà contro lo sporco più sporco (1967-68); oppure No MARTINI? Ci sarà senz’altro chi risponderà No party; e poi

MAXIBON MOTTA. Du gust is mej che uan

Un diamante è per sempre (in questo caso il marchio DE BEERS non viene neppure memorizzato perché appare scritto nello spot)

Cosa vuoi di più dalla vita? Un Lucano

E che dire di Ehi Gringo, la macchina? Vavavuma celeberrimo negli anni Ottanta ma poi scivolato nell’oblio dei non cultori delle pubblicità di quegli anni delle generazioni successive?

Sorte condivisa anche da OMSA Che gambe!

ma non, ad esempio, da CHICCO dove c’è un bambino!  divenuto oggetto di una riscrittura parodica che suona Ciucco dove c’è un grappino!

Il fatto che Chicco sia sopravvissuto agli anni subendo pochi acciacchi oltre che alla continuità di diffusione dei prodotti del marchio è però senz’altro imputabile all’impiego, nello spot (anche radiofonico) del ben riuscito motivetto che accompagna lo spot, in termine tecnico jingle.

Jingle: si tratta di un prestito dall’inglese che in italiano si trova dai primi anni Ottanta (in inglese si diffonde grosso modo mezzo secolo prima). Letteralmente sta per ‘tintinnio, scampanellio’ e, per estensione, ‘motivo musicale’. Nell’ambito dei pubblicitari si è soliti definire il jingle un esempio di sound branding, ovvero un “brano” impiegato per rafforzare la capacità del consumatore di riconoscere la marca e richiamarla alla memoria.

Uno dei rimi e più noti jingle italiani fu quello di Nelsen piatti

Altrettanto intramontabile l’innumerabilità delle stelle di Negroni

Sopravvissuti probabilmente meno bene al ricambio generazionale sono invece gli spot delle liquirizie in confetti Tabù ta-ta-bu

e quello dei Baci Perugina incentrato sul ritmatissimo Tubiamo

Quest’ultimo in particolare è rivelatore di come la pubblicità, per irretire il destinatario, si serva degli espedienti manipolatori della retorica. Addirittura non appare esagerato affermare che la pubblicità costituisce probabilmente la tipologia testuale che più di tutte si dimostra conoscitrice dei complessi e sottili quanto spesso invisibili mezzi messi a disposizione da questa antichissima disciplina, un tempo praticata nell’agone politico. Basti pensare al sofisma – il discorso ingannevole basato sulla forza dialettica delle argomentazioni – esemplificativo della potenza persuasiva della retorica. Come negare che molte pubblicità incarnino perfettamente il modello del sofisma?

PUBBLICITA’ E RETORICA

Nei testi pubblicitari ricorrono infatti esempi raffinatissimi di retorica e di funzione metalinguistica e poetica, funzioni fondate, rispettivamente, sulla manipolazione della lingua/codice impiegata e sugli artifici del messaggio (approfondiremo questi aspetti tra poco, esaminando alcuni esempi). Per ragioni evidenti questa è la caratteristica del testo pubblicitario più cara ad un linguista; una caratteristica che però non sfugge neanche al parlante non-linguista o comunque poco esperto di strutture linguistiche, che in modo del tutto intuitivo dimostra di riuscire a comprendere i “giochi di parole” che si realizzano per mezzo dell’impiego di quelli che da più di duemila anni si è soliti chiamare tròpi, letteralmente ‘cambio, trasferimento’.

Ogni figura retorica rappresenta pertanto “uno spostamento, una trasformazione o uno scarto di senso rispetto a quelli che sono gli usi consueti della lingua” (G. L. Beccaria, Dizionario di linguistica e di fonologia, metrica e retorica, Torino 1996 s.v. tropo).

Il linguaggio così da referenziale, che si riferisce cioè alle cose indicandole con il loro nome comune, quello da tutti inteso, diviene invece figurato, portatore di simboli.

Si tratta di decine e decine di artifici, di figure, che possono investire

–          il senso di una singola parola;

–          il senso di gruppi di parole più ampi;

–          l’aspetto fonico del testo;

–          interi periodi, che vanno a modificarsi per effetto di trasformazioni semantiche

(A. Abruzzese, F. Colombo, Dizionario della pubblicità, Zanichelli, Bologna, 1994, s.v. retorica della pubblicità)

Anche senza aver dimestichezza con i contenuti tecnici di queste nozioni, senza sapere, perciò, che si tratta di una figura detta omoteleuto (letteralmente ‘stessa fine’), l’incisività di questo tropo si manifesta nel fatto che tutti i parlanti percepiscono in AVA come lava… o Come prima OVOMALTINA (campagna 1985) o, ancora, MATO MATO Impazzire di Tomato (assente però nel motivetto cantato: appare infatti nell’ultima immagine del filmato almeno in una delle versioni dello spot), una sovrapponibilità fonica che si ripresenterà alla loro mente tutte le volte che si troveranno ad udire la marca del prodotto o la forma (verbo o sostantivo) implicata nel gioco linguistico.

Sulla prima parte della parola e non sull’ultima, come nei casi ora considerati, fa leva invece lo slogan Brrr… BRANCAMENTA

Sull’assonanza si regge Siete sulla retta Kia (parafonia via-Kia) ma anche RowentaPer chi non s’accontenta, sulla rima inclusiva Il metano ti dà una mano (SNAM), sul chiasmo – la presenza di una successione nome-aggettivo-aggettivo-nome lo spot cult di Pennello Cinghiale, retto dal duplice significato di grande a seconda della posizione precedente o successiva al sostantivo.

Appare perciò evidente la ragione per cui la retorica ha tanto irretito i pubblicitari: riunisce quegli artifici che, usati appropriatamente, hanno la capacità di ampliare le possibilità creative e attrattive della lingua rendendo così i messaggi più accattivanti e pertanto più probabilmente memorizzabili da parte dei destinatari.

Curiosità/approfondimento: Capolavoro di retorica della lingua e delle immagini è lo spot per la Nissan Micra del 2003, diretto dal regista David Lynch e orchestrato in modo da evocare gelide emozioni.

Lo spot si apre con la figura di un uomo che si volta di scatto, nella penombra di una strada notturna. Immediatamente dopo l’intero campo dell’inquadratura è occupato dal “muso” dell’automobile: colore blu metallico e fari accesi calamitano l’attenzione dello spettatore, i cui occhi accompagnano la Micra che si sposta per le strade di una metropoli futuristica, una città lucida deserta e fredda, in cui si riflettono luci e architetture vetrate.

Accompagnano gli spostamenti dell’auto un paio di enormi, carnose, sensuali labbra blu (un blu metallico identico a quello con cui è dipinta la carrozzeria della Micra) colte nell’atto di articolare alcune parole corrispondenti ad un inusitato quanto auspicabile mix di caratteristiche che rendono la macchina unica:

sigile

semplogica

modtro

emotica

Parole nuove, complesse, prodotto della fusione di due opposti; parole macedonia che sintetizzano caratteristiche tipiche di un’autovettura che in genere si escludono reciprocamente.

Perché dunque scegliere tra un’auto sicura (e quindi probabilmente poco dinamica nella percezione dell’automobilista attento alle prestazioni) ed una agile (che però in genere non brilla per sicurezza agli occhi del “padre di famiglia” attento alla protezione che l’auto è in grado di garantire più che alla brillantezza della guida o alla velocità di ripresa) quando è possibile averne una sicura + agile > sigile?

Allo stesso modo l’auto semplogica assommerà in sé le caratteristiche di semplice + tecnologica e quella modtro di moderna + retrò.

Il risultato sarà un’auto emotica, emozionante + pratica, adatta per la guida urbana nel traffico, come city car, ma anche per quella sulle lunghe distanze, ecc.

Adattata a lingue diverse, laddove la struttura linguistica lo permetteva la scelta delle parole di base si è orientata su parole il più possibile affini concettualmente (cfr. ingl. modtro < modern + retro o simpology < simple + technology); laddove invece ciò non fosse possibile, il criterio formale è prevalso su quello semantico: è il caso di spontaneous + safe > spafe come “equivalente” di it. sigile.

Una nuova lingua, dunque, per una nuova autovettura: una nuova lingua costruita su parole “vecchie” dal significato opposto come già esistenti – e opposte – sono le caratteristiche dell’auto, ora però finalmente compresenti.

Il tutto riassunto nell’efficace slogan di chiusura Do you speak Micra? che costituisce anche una chiave di decodifica dello spot, giocato sul collegamento labbra/auto – entrambe blu metallico, entrambe seducenti, allettanti e misteriose – tali da risvegliare quello che Benjamin chiamava il sex appeal dell’inorganico.

Una vera e propria storia, dunque, che incarna in modo quanto mai efficace come il prodotto sia diventato secondario nell’economia dello spot. Ciò che infatti mira a vendere, come si evince dalle parole di Benjamin, è un’ideale, un’atmosfera, un mondo misterioso e sensuale ammantato di fascino a cui aderire attraverso il possesso della Cosa reclamizzata.

Un possesso che non ha a che fare con l’avere bensì con l’essere.

Possedere la cosa dello spot rende simili al protagonista dello spot; rende protagonisti, consentendo in tal modo il riscatto dall’ordinaria esistenza impiegatizia.

Il peggiore bar di Caracas non è perciò realmente il peggiore, ma è quello in cui sentirsi maledetti come gli antieroi di certi film.

MODELLI ALTERNATIVI

La persuasione può però far leva su altri sentimenti e aspettative, cui corrispondono schemi narrativi diversi.

Da queste modalità narrative altre scaturiscono modelli ibridi di campagna pubblicitaria affermatisi particolarmente negli ultimi due decenni, quali la pubblicità intervista, la pubblicità-racconto, le pubblicità-dibattito, le pubblicità-sketch comico unitamente ad altri tipi ispirati dalle forme di intrattenimento televisivo o cinematografico in voga (Chiantera 1989).

Una storia che si ricollega alla tradizione dei romanzi a puntate, esempio di narrativa in serie, è quello della Telecom, allora SIP, del 1993, con il condannato Lopez a cui “una telefonata allunga la vita” (attualità: e una telefonata ha di recente veramente allungato la vita ad una naufraga, salvata dal telefono impermeabile che le ha permesso di chiamare la madre che ha a sua volta allertato i soccorsi).

Tornando a questa campagna, 11 sono stati gli episodi che hanno consentito al condannato Lopez di sfuggire al plotone dell’improbabile legione straniera, spot girati come mini film in cinemascope debitori alla tradizione di Carosello per ammissione del loro stesso regista, Alessandro D’Alatri, recentemente autore ancora della campagna pubblicitaria Telecom, in cui al posto di Lopez c’è un Christian De Sica-vigile che sfugge al plotone grazie al cellulare.

La saga che allunga la vita

Due spunti dalla saga SIP:

1)      nella prima puntata l’enunciazione del tormentone stesso (Una telefonata allunga la vita)

Curiosità: allungare la vita lo troviamo già in Petrarca 114-4 Sono fuggito io per allungar la vita, nel Trecento; ciò significa che si tratta di un’espressione radicata nella lingua italiana fin dalle origini

2)      nella quarta puntata: “a me toglimi tutto ma non toccarmi il telefono”; “io senza il telefono sarei morto”

La prima frase “a me toglimi tutto ma non toccarmi il telefono” richiama alla mente un’altra serie di spot, di alcuni anni dopo, quella di Brail “Toglietemi tutto ma non il mio Brail” usata prima per pubblicizzare un orologio e più tardi una linea di gioielli.

Curiosità: Un auspicio: magari si potrebbe realizzare una Pubblicità (Progresso, altro capitolo che per ragioni di tempo non si toccherà) giocata sull’assonanza brail-brain (‘cervello’) “Toglietemi tutto ma non il mio… cervello

Curiosità: Alessandro D’Alatri è autore di innumerevoli spot tra i quali quelli del notissimo tormentone Ciribiribì Kodak e di Barilla – grazie Roma con cui vinse addirittura un premio a Cannes.

PUBBLICITA’ E COMPORTAMENTI SOCIALI

Ammicca a, e quindi sdogana, atteggiamenti e comportamenti solitamente condannati dal perbenismo e dal benpensantismo.

Una su tutte, Campari Red Passion, con un uomo-ambiguamente donna e una donna-ambiguamente uomo, elementi innovativi che vanno ad inserirsi in una ambientazione ed una colonna sonora notissime perché caratterizzanti una delle scene promiscue di Eyes wild shut, il film di Kubrick con la coppia Crociera-UomoRagazzo, che funge da modello narrativo e al contempo da cornice che vanno a completare quanto raccontato dallo spot Campari.

PROMISCUITA’ E APERITIVI

La frequenza del connubio promiscuità-aperitivo meriterebbe un approfondimento a parte anche perché richiederebbe l’intervento di competenze psicologiche, sociologiche e antropologiche.

Che all’aperitivo si guardi come ad un viatico per la conoscenza (leggasi, con termine informale, il rimorchio) di potenziali altri partner, non è però una novità, tutt’altro. assodato già da campagne quali quella di – CINZANO rosso del 1967-68, il cui slogan recitava Rompete il ghiaccio col Cinzano rosso, giocata tutta la possibilità di lettura letterale e non della formula rompere il ghiaccio.  

 

 

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LA BIO-LÒGICA: UNA VITA ALL’INSEGNA DEL BIO

 

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PUBBLICITA’ E GENERE/GENDER

Ruolo di genere: i comportamenti che ci si attende da un individuo in base al sesso cui appartiene

–       LA DONNA SWIFFER

–       LA FAMIGLIA APERTA DELL’IKEA (campagna è stata lanciata qualche mese fa in occasione dell’apertura del negozio Ikea di Catania)

 

 

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Attualità: il ministro Giovanardi ha accusato questo messaggio di incostituzionalità perché essendo la famiglia una società naturale fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna la proposta di Ikea va contro la famiglia tradizionale.

Da quanto finora detto si evince quanto fragile sia il confine tra comportamento sociale e stereotipo (ciò che ci si aspetta per una certa categoria di persone o di cose o di fenomeni) e, in senso ancora più ampio, tra pubblicità, comportamento sociale, stereotipo e ideologia.

UNA FELICITA’ DA MULINO BIANCO

IL SUPERUOMO CHE BEVE MARSALA

 Esigete MARSALA FLORIO Ristora, Rinfranca, Rinforza (1933)

–  C’è la storia, perché le aziende di lunga data per promuovere il brand puntano sulla loro storia che ricostruiscono attraverso la storia tradizionale italiana (es. Barilla)

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ECONOMIA E PUBBLICITÀ, PUBBLICITÀ DELL’ECONOMIA

Un caso del tutto particolare è quello della pubblicità finalizzata a promuovere i consumi, una sorta di meta pubblicità, di pubblicità senza sbocco e tutta compresa in se stessa, del tipo Fai girare l’economia, slogan di uno spot di qualche anno fa (patrocinato dalla Presidenza del Consiglio, introvabile in rete, almeno per me) nel quale donne e uomini dediti allo shopping venivano ringraziati da passanti sconosciuti per il fatto di aver dato impulso all’economia grazie ai loro acquisti.

Ci sono poi pubblicità che non ci si aspetta, o almeno che non ci si aspettava. E che fino a poco più di dieci anni fa sarebbero state inimmaginabili. È il caso delle pubblicità delle università

Se non fosse stato già utilizzato – e se non ci fosse un’università che si chiama e-Campus – si potrebbe dire: Una scelta di campus

LA CONTROPUBBLICITA’, ESERCIZIO DI RETORICA DELLA RETORICA

Preservativi EXDUR: prima di andartene vieni!

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SOLUZIONI LINGUISTICHE ARDITE

CAPELLI FRAGILIZZATI: fragilizzati ricorre sempre in riferimento a capelli. Tecnicismo? Non sarebbe l’unico caso in cui una forma non conforme alla norma linguistica viene adottata nell’ambito di un linguaggio specialistico o di un gergo relativo ad un sapere tecnico (es. règime del motore).

Un altro esempio, piuttosto recente, è PASTATELO E GODITELO (Philadelphia).

DIFFUSIONE DEI TECNICISMI: A CIASCUNO IL SUO BIFIDUS

Spot Activia (bifidus actiregularis)

L’impiego dei tecnicismi nella réclame è ampiamente attestato fin dai primi del Novecento. Se questa cosa può sorprendere tenendo conto del grado di diffusione dell’italiano a quei tempi, la constatazione che questa tendenza si è mantenuta ed è tuttora operante non può che spiegarsi con il senso di rassicurazione e di fiducia trasmesso al destinatario del messaggio pubblicitario da “paroloni” di significato oscuro ma ammantati di autorevolezza.

(Per approfondire: Giuseppe Sergio, La salute in vendita. Un sondaggio lessicale sulla lingua medico-pubblicitaria, in Lid’O. (Lingua italiana d’oggi), Gen./Dic., 2007)

Affascinare informando sembra pertanto la principale ragione d’impiego dei tecnicismi, specialmente di quelli di ambito medico, doppiamente efficaci perché grimaldelli vincenti nell’ottica del destinatario da persuadere e al contempo in grado di alleggerire il copy, colui che si occupa di scrivere i testi della pubblicità, dal peso che solitamente gli comporta la necessità di sedurre attraverso l’impiego della lingua in maniera non troppo sfacciata.

Il successo delle formule costruite intorno al tecnicismo medico o scientifico si può misurare dal grado di diffusione di conoscenza passiva di termini quali Bifidus, che nella competenza del parlante equivalgono a dei contenitori/simulacri svuotati di ogni significato diverso da quello che è possibile ricostruire dal contesto al cui interno la parola è inserita.

In tal modo si compie un’operazione di ricreazione del significato, ottenuto mettendo insieme le informazioni offerte dallo spot stesso. Che questa operazione sia equivalente ad una tautologia, un cane che si morde la coda, perché paradossalmente – se non ci fossero regole e azioni di controllo – si potrebbe usare un neologismo codificato secondo i criteri della terminologia tecnico-scientifica, inserirlo in uno spot contenente elementi esplicativi sulla nuova sostanza e mandare in onda la campagna pubblicitaria a ritmi martellanti per convincere della bontà della novità.

Curiosità: insomma, la storia del Cacao Meravigliao, esemplificativa di come sponsor ergo sum (all’epoca moltissimi erano i telespettatori che lo cercavano nei negozi)

MODALITA’ DI CREAZIONE DEI MARCHI E RAPPORTO CON I PRODOTTI

Il marchio rappresenta per un prodotto quello che per una donna rappresenta un gioiello: pur non costituendo, infatti, in apparenza, un elemento necessario del suo abbigliamento, il gioiello conferisce un tratto distintivo particolare al suo aspetto finendo spesso per attirare su di sé lo sguardo di chi si guarda, anche a discapito di tutto il resto.

Per via di questo ruolo – che da accessorio finisce per essere protagonista e per rivestire un importante ruolo nella definizione dell’identità del prodotto, dal momento che contribuisce a definire il modo in cui un certo prodotto si fisserà nell’immaginario comune – intorno alla creazione di un marchio si riuniscono, anzi sarebbe il caso di dire condensano, ragioni e istanze che rispondono ad esigenze diverse.

Il marchio deve infatti rispondere a criteri estetici, deve perciò essere gradevole alla vista, ma contemporaneamente deve essere facile da ricordare, non deve essere confondibile con altri marchi e deve contribuire a rassicurare il potenziale acquirente/fruitore, trasmettendogli una sensazione di affidabilità (ragione per cui quelle linee di prodotti che volutamente imitano un prodotto analogo distribuito da un marchio maggiore, più prestigioso, ne imitano spesso anche il marchio, giungendo persino ad una vera e propria copiatura che poi, ad una lettura più attenta, rivelerà differenze, di uno o più elementi grafici o grafemici).

Esistono marchi aziendali, marchi di famiglie di prodotti e marchi di singoli prodotti. Il rapporto tra queste tre entità è tutt’altro che scontato e dal punto di vista linguistico è di grande interesse perché deve conciliare l’esigenza di riconoscibilità dell’azienda con quella di identificabilità del singolo prodotto. Per ottenere questo risultato si gioca sul nome aziendale che, tanto nel caso intermedio delle linee di prodotti, tanto in quello finale del singolo prodotto, viene ripetuto in tutto (Dino Erre Collofit, Cornetto Algida) o in parte, in voci alterate o composte; può inoltre figurare con una porzione ridotta (non sempre la medesima) del proprio corpo fonico, ricombinato (Nestea), giustapposto, univerbato, finendo per dar vita ad un ampio catalogo di giochi di parole, capovolgimenti logici, scioglilingua, allitterazioni, scomposizioni e ricomposizioni, neologismi e invenzioni, battute in rima.

Quanto alla natura del marchio aziendale, molte volte corrispondente al cognome del fondatore o più raramente a un nome di luogo, un toponimo, o ad altro nome proprio.

Curiosità: macchine e strade consolari (un sincero ringraziamento a Enzo Caffarelli direttore della RIOn per avermi dato la possibilità di leggere il suo articolo sui marchionimi ancora in bozza).

La Lancia nel 1936 iniziò la produzione dell’Aprilia, che riprendeva il nome di una delle neonate cittadine del bonificato agro pontino, così chiamata da Benito Mussolini che aveva voluto sottolineare l’idea della bellezza e della fertilità per quello che deve essere l’“orto di Roma” nella Pontinia bonificata, attraverso il richiamo alla Venus aprilia. Nel 1939 toccò all’Ardea cui corrispondeva un’altra città laziale stavolta antica, fondata secondo la leggenda dal figlio di Ulisse e di Circe, che fu capitale dei Rutuli e poi avamposto romano contro i Volsci (alla pronuncia etimologica con l’accento sulla prima “a” si va sostituendo, nel parlato, la forma Ardèa, l’unica accentazione con cui è stato chiamato il modello della Lancia). Nel secondo dopoguerra, i modelli Lancia si sono arricchiti con la Aurelia, collegata ai nomi precedenti per la sua romanità e il suo rappresentare una delle strade consolari della capitale, ma anche nome di donna (come Augusta). Ha fatto seguito nel 1953 l’Appia, altra strada consolare stavolta diretta verso il sud e non verso il nord.

E, come in una sorta di bersaglio, in cui si passa da un nome all’altro attraverso una singola caratteristica della forma o della sostanza del nome, la Flaminia del 1957 condivideva con l’Aurelia e l’Appia il valore di via consolare romana ma inoltre, con la prima, l’essere nome di donna; caratteristiche che, insieme alla F- iniziale, sarebbero state ereditate dalla Flavia nel 1960. Né il modello che segue in ordine cronologico, la Fulvia (1963), ha perduto la connotazione di ‘via consolare’, se si tiene conto della Via Fulvia in Piemonte (da Tortona al Monginevro) e ha mantenuto, insieme alla consonante iniziale, quella ormai prevalente di ‘nome di donna’ (del resto tutte le vie consolari romane, proprio perché create da consoli di cui portano il nome – Aurelius Cotta, Appio Claudio, Flavio Vespasiano, Gaio Flaminio, Quinto Fulvio, ecc. – corrispondono a nomi di persona, anche se alcuni non sono stati recuperati in era moderna come antroponimi).

 

L’uso dei classicismi tra i marchionimi

Conferiscono un’aura di prestigio al prodotto cui sono associati, alcuni al parlante possono apparire come anglismi (per esempio Onyx o Sector)

Le categorie merceologiche in cui ricorrono sono varie e vanno dagli elettrodomestici alle assicurazioni. Eccone alcuni esempi:

– alimenti: Magnum, Lacrima Christi (lacrima di Cristo)

– elettrodomestici: Rex, fatti per essere il numero 1, Bella forza: è Ignis

– assicurazioni: Securitas, Ausonia (antico nome d’Italia), Mediolanum

– detersivi: Vim liquido, contro lo sporco più sporco

– accessori e abbigliamento: Sector, no limits, Onyx, Invicta

– cosmesi: Lux, Nivea

– arredamento: Habitat, Domus

– trasversale (dai piccoli elettrodomestici ai gioielli): Diunamai (accentato male nello spot)

Non è un marchio bensì uno slogan “VENI,VIDI,VICI” dello spot Tim con Marcoré e Proietti (che richiama la frase attribuita a Giulio Cesare in occasione del rapido successo con cui nell’estate del 47 aveva sconfitto l’esercito di Farnace II nel Ponto)

Curiosità: Tampax, basato su tampon, è un finto latinismo e non ha a che vedere con pax