“Il riposo del guerriero” del 15 aprile 2012

Una precisazione, innanzi tutto. I due oggetti di culto, a dispetto delle apparenze (molto più che somiglianti, suonano perfettamente identici) non sono la stessa cosa. Il primo oggetto di culto ha ancora pochi anni, una origine straniera – anglofona, come spessissimo accade dagli inizi del XX secolo – il fulcro primario di irradiazione nel linguaggio della cronaca cinematografica, subito amplificato da quella di costume, e, soprattutto, un plurale.

Il secondo, italianissimo, alle origini alternante con obiètto (si tratta di esiti diversi di una stessa forma latina medievale, obiectum, participio passato sostantivato di obicere, verbo ottenuto prefissando con ob, letteralmente ‘contro’, iacere, che significa ‘gettare’), attestato con continuità nella storia linguistica italiana e, soprattutto, invariabile quando impiegato per riferirsi alla ‘persona (solo molto più tardi la cosa) su cui ricadono gli effetti di un’azione o che è sottoposta a un determinato trattamento o che suscita un particolare sentimento amoroso, o anche di odio, di compassione, ecc.’ (cfr. GDLI, GRADIT, Tommaseo-Bellini s.vv.).

A causa delle complesse dinamiche che portano la lingua a essere quella che è, anzi quella che i parlanti usano, i due “oggetti” – che appunto, a dispetto delle apparenze, non sono lo stesso oggetto – iniziano un percorso comune quando invece di ricorrere al prestito, la ripresa pedissequa di una parola o di una espressione da un’altra lingua, il parlante probabilmente proprio perché ha nelle orecchie l'”oggetto di culto italiano” si risolve per una traduzione di cult object, l’incriminato “oggetto straniero”.

Come ci si sia arrivati è presto detto. Queste, in sintesi, le tappe che potrebbero aver portato a quello che, più brevemente – e con maggiore effetto -, sarebbe diventato semplicemente il cult. Innanzi tutto il

cult movie ‘film che gode e continua a godere di uno speciale apprezzamento da parte dei critici e di un pubblico competente e appassionato, anche se non ampio’, attestato per la prima volta, stando a quanto riferisce il GDLI di Salvatore Battaglia (aggiornamento 2004, s.v.), in

Candido [29-XI-1979]: Si cercava di esumarne lo spirito, elevando i film di due personaggi tanto diversi a cult movies. Cineforum [dicembre 1983], 17: Quel che conta è che film come questi si propongono come cult movies o più in generale come cinema d’essai, vale a dire come opere costrette entro i limiti dell’Intellettuale, come prodotti diretti ad un pubblico particolare. Velvet [maggio 1992], 68: Una lunga intervista a H.G. Lewis, inventore negli anni ’60 del cinema gore (con estratti sanguinolenti da rari cult movies quali ‘Bload feast’ e ‘2000 Maniacs’

È pertanto da ritenenrsi cult (pronunciato sia [kalt] che [kult]) quell”oggetto o prodotto intellettuale che gode di uno speciale riconoscimento, in particolare in campo artistico o culturale, e che è ricercato o imitato non solo per il suo valore intrinseco ma anche per il suo prestigio sociale, per ciò che rappresenta’.

Inizialmente aggettivo che, unendosi ad un nome, per lo più libro o film, ne sancisce la condizione di venerazione da parte di gruppi più o meno ristretti di ammiratori, cult (le cui prime attestazioni sono individuate nel 1983) in seno alla nostra lingua scala rapidamente la china della sostantivazione andando a ritagliarsi uno spazio semantico difficilmente contestabile da parte di altri moduli espressivi. Breve e perciò rapido da snocciolare nella conversazione, dotato di una giusta dose di esotismo ma di facile pronuncia, diventa un vero e proprio indicatore di condizione in grado di risollevare da destini avversi o di santificare (visto che della parola per culto si tratta) prodotti nel primo caso troppo raffinati per essere apprezzati dalla massa, nel secondo troppo volgari e dal successo inaccettabile se non fosse per il loro essere cult.

Che sia pregevole o meno, che sia bello o brutto, raffinato o volgare, quanto viene sfiorato dall’alone del cult si trasforma ex abrupto in un oggetto di ammirazione sconfinata, a volte in un vero e proprio marcatore sociale. Ciò che sembra cambiare nel tempo è il ruolo dell’appassionato: perché se in un primo tempo a fare di qualcosa una cosa cult sono gli appassionati convinti fruitori di quella cosa, più tardi cult sembra assumere una valenza quasi trascendentale, che conquista e seduce e che conseguentemente ottiene ammiratori.

Se perciò corrisponde al vero che ‘oggetto di culto’ traduce letteralmente cult object, non altrettanto corrisponde alla percezione del parlante nativo la sovrapposizione di questo composto sintagmatico con l’altro costrutto, che, come si è detto, “suona male” al plurale, non sembra essere un composto e ha funzione di complemento predicativo dell’elemento sul quale ricade il sentimento precisato dallo specificatore successivo (di culto, intercambiabile con di lode, di ammirazione, etc.).

Non sconfesserebbe questa diversità neppure il fatto di sentir pronunciare una frase quale oggetti di culto che sono sono oggetti di culto, impropria ma non bollata di primo achitto come errata per una sorta di interferenza del primo oggetti di culto, la cui familiarità all’interno della comunità linguistica è stata amplificata dal massiccio uso nei linguaggi della comunicazione, sul secondo.

Ai linguaggi della comunicazione sarà dedicata la seconda parte di questa riflessione, che si sposterà a considerare i rischi connessi con il fatto che a diventare oggetto di culto siano parole.

Che il discorso, anche per l’aumentato bisogno di prodotti comunicativi, si presti a forme di riuso continuo è un dato incontrovertibile e diffusamente analizzato.

Meno evidente appare invece, almeno ad una osservazione superficiale, lo scivolamento lento ma inesorabile delle parole del riuso a meri simulacri, sorta di scatole dal contenuto approssimativo che ripagano l’utente con un senso di rassicurazione compensativo di questa loro pochezza semantica.

Comunque le si voglia chiamare – scatole, (mattoncini) Lego della comunicazione, parole di plastica o lingua di legno (langue de bois), tutti appellativi attestati nella letteratura sull’argomento – le parole colpite da questa affezione guadagnano in popolarità quanto perdono sul piano dell’aderenza col reale.

Accade così che ci siano tragedie che non sono tragedie e che, per converso, tragedie che lo sono per davvero, appaiano sminuite e ridotte all’ennesima tragedia, alla tragedia di tutti i giorni, perché l’ab-uso, l’abnorme uso, di tragedia ha finito per farne perdere i connotati. Lo si può facilmente constatare da sé inserendo il termine tragedia seguito da una preposizione – la prova è stata fatta con tragedia della – in un motore di ricerca. In men che non si dica e con una coerenza temporale impressionante (perché in tanta tragedia “cronachizzata” la data non manca mai e a comparire in cima ai risultati è sempre l’ultima tragedia, quella del giorno prima o, se si è “fortunati”, del giorno stesso) ecco comparire una sequela comprendente, in ordine non rigoroso fatte salve le prime forme riportate, tragedia di Morosini (la ricerca è stata fatta dodici ore dopo il tragico, stavolta per davvero, decesso del calciatore del Livorno), tragedia della Concordia, della nave, della vita, della vecchiaia, della Grecia, della gelosia, della disoccupazione, della Shoah, della strada, della follia, della fame, della fanciulla, della fiumarella, della famiglia, della Valtellina, della Folgore, della funivia, della Bosnia, della bomba atomica, della Juventus, della val di Stava, della diga, della depressione, della love-parade, della neve e delle tante persone (a volte identificate con nome e cognome, altre con il solo nome, altre ancora con l’aggiunta di aggettivi, sipensia povero/a) a cui il sostantivo è stato legato. Per ciascuna di queste tragedie ci sono poi numerose fonti diverse e frequentemente ripetizioni nell’ambito dello stesso testo. Alla fine della lettura il rumore del rimbombo delle parole ha sostituito le parole.

Nelle loro numerose esternazioni, i lavoratori della parola – linguisti, scrittori, giornalisti, persone sensibili agli effetti di distorsione conseguenti all’abuso linguistico – per spiegare questo fenomeno che ha a che fare con la formazione di stereotipi, hanno coniato etichette e raccolto esempi, dando vita ad un dizionario nel dizionario, un sistema nel sistema, il primo a rosicchiare sempre nuovi elementi dal secondo.

Fare pulizia, il sogno di, il dramma di, solare, importante, notevole, uno spettacolo, valido, evento, svolta, follia, problematica, tematica, pandemia, un bacio (alla fine di ogni telefonata) sono solo le prime manifestazioni a saltare alla mente di uno stato di emergenza continuo che renderà complesso individuare un termine calzante per le vere emergenze.

Ma poiché la lingua – e i suoi utenti – riservano continue sorprese, ecco l’inaspettato riassetto del sistema.

A segnalarlo è Gianluigi, un ascoltatore, a cui va il mio ringraziamento per questo spunto. Il contesto è quello della Costa Concordia che imbarca acqua – una vera emergenza; mentre il tempo trascorre inesorabile (…la parola di plastica è sempre dietro l’angolo) l’arcinoto comandante della nave ripete al telefono che non c’è “nessuna emergenza”. Che lo abbia fatto perché consapevole che emergenza non avrebbe fatto pensare ad una situazione grave?

p.s. almeno da Calvino compreso in poi (solo per limitarci a un’epoca recente) si sono occupati di parole di plastica Ornella Castellani Pollidori (artefice di questo epiteto), Stefano Bartezzaghi, Gianrico Carofiglio, Gustavo Zagrebelsky, Giorgio Bocca, Beppe Severgnini, Uwe Pörksen. E tanti altri.