“Il riposo del guerriero” del 22 aprile 2012
A premessa di tutto occorrerebbe dire che, almeno in via potenziale, una lingua potrebbe non dover mai ricorrere alla ripresa dall’esterno di termini: dispone infatti di tutto il necessario per poter coniare all’occorrenza le parole di cui ha bisogno.
Il ricorso al prestito alloglotto, termine con cui si indica il ricorso ad una lingua straniera per l’arricchimento del proprio repertorio, risponde perciò ad una scelta guidata da fattori culturali, sociali, individuali, di cui i parlanti possono essere più o meno consapevoli. E non a delle necessità linguistiche. La lingua, semmai, raccoglie il frutto di scelte che hanno a che vedere con le conseguenze del contatto con una cosa nuova (un nuovo oggetto, un nuovo cibo, una nuova pratica) o con una cosa già nota (in tutto o in parte) ma che, per ragioni da precisare di volta in volta – e perciò non esenti da una certa dose di soggettività -, potrebbe apparire nuova, diversa da quella che si conosce.
Se invece si guarda alle conseguenze del processo, conseguenze che implicano, quelle sì, la lingua, allora occorrerà precisare che le reazioni della lingua, i comportamenti linguistici conseguenti al contatto col nuovo, possono essere diverse e prevedere
– una ripresa totale dell’elemento straniero, adattato o meno alla lingua d’arrivo
– una ripresa parziale dell’elemento straniero, adattato o meno alla lingua d’arrivo
– una ripresa rielaborata (del significato o della struttura) dell’elemento straniero
Rinunciando, anche per ragioni di brevità, ad una carrellata di esempi, mi limiterò a esempi di prestito che tali non appaiono agli occhi (o, meglio, alle orecchie) del parlante italiano, convinto che stravizio, banana, vernice, standard o marmellata siano parole della sua lingua, probabilmente da sempre.
Il fatto che il primo sia un adattamento del serbocroato zdravica ‘sfida al bere’ (accostato a vizio per ragioni di aderenza sia semantica – il vizio del bere – sia espressiva: la c di vica si pronuncia in modo simile ad una z italiana [ts]), che banana provenga probabilmente da una lingua della Guinea, che vernice sia adattamento del francese vernissage, che standard in principio denotasse, in inglese, oggetti di grande pregio da usare come metro di riferimento per la misurazione del valore di altri e solo più tardi la qualità ritenuta normale, di riferimento, o, infine, che marmellata provenga dal mondo lusofono, dovrebbero per lo meno indurre a porsi in maniera meno scontata alla questione di una presunta italianità nel senso di purezza linguistica.
E gli esempi potrebbero moltiplicarsi, a centinaia. Costringendo a ridisegnare i limiti entro i quali si definisce un elemento italiano e oltre i quali, invece, no.
Per concludere, un esempio gastronautico: il nome per ‘la patata’.
Al principio della trafila c’è l’indiano potati, probabilmente da un composto del quechua (lingua ufficiale dell’impero Inca) pata e dello haitiano batata. Attraverso lo spagnolo (patata) il termine giunge all’italiano guadagnando terreno in seno al sistema linguistico. Non però in tutte le varietà, dal momento che in diversi dialetti risultano attestate forme di arrivo diverse dal prestito; forme incentrate sull’accostamento della forma della patata a quella della mela (il pomo che è anche alla base di pomo d’oro, preferito al prestito dalla lingua azteca che ha invece trovato spazio nel francese e nello spagnolo tomate). Ne conseguono le varianti del tipo pomo di terra, perfetti corrispondenti dell’esito francese standard pomme de terre.
Poiché però le vie dello scambio sono imprevedibili, ecco l’italiano tartufolo (o il suo diminutivo tartuficulo), da una forma ricostruita *territuberum, a fornire il materiale per tartuffel alla base del tedesco Kartoffel, parola poco amata dagli austriaci che, per difendere la propria specificità e per distinguersi dai tedeschi, hanno condotto una battaglia in Europa per poter chiamare la patata Erdapfel ‘pomo di terra’ e non Kartoffel.
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