“Il riposo del guerriero” del 17 giugno 2012

Quando giovedì Giorgio De Luca (della redazione del Guerriero), mi ha comunicato che l’argomento di questa domenica sarebbe stata la felicità, stranamente la prima suggestione che ho ricevuto non è stata di tipo etimologico.

Le storie di parole e di radici di parole sono arrivate subito dopo, ma dopo.

La prima cosa che ha iniziato a prendere concretamente forma nella mia mente è stata la lista di aggettivi, apposizioni, elementi descrittivi che nel corso della vita ho sentito associare a La felicità è… nei più disparati ambiti, da quello filosofico a quello pubblicitario, alle confessioni o considerazioni personali.

Detto in una sola parola, ricetta è il termine che in un ipotetico “paradigma della felicità”, una lista di parole ed espressioni strattamente collegate dal punto di vista del significato o di ciò a cui rinviano, inserirei al primo posto, seguito da una lunga, ricchissima serie di termini accomunati dal fatto di costituire anche delle sinestesie.

Abbiamo infatti imparato che la felicità ha un colore, un sapore, che si tocca, si odora, che cresce, che ha le fattezze di un bambino, che somiglia ad un inseguimento, ad un miscuglio di ormoni e neurotrasmettitori.

Insomma, che è qualcosa di tutt’altro che astratto, probabilmente in vrtù dell’importanza che ha per le nostre vite e per il conseguente strenuo impegno che mettiamo nella sua ricerca.

E a questo punto hanno invece iniziato a materializzarsi le storie di parole, che, a differenza delle parole impiegate per descrivere e denotare la felicità, sono invece estremamente concrete. Almeno in principio.

In principio fu, molto probabilmente, il latte e fu il letame.

Procedo con ordine.

Come altre volte mi è capitato di dire, il latino, la maggioranza delle cui parole l’italiano e le altre lingue romanze continuano da secoli, è ormai ritenuto, almeno nella sua forma arcaica, una lingua di contadini.

Con l’espressione latino “lingua di contadini” (“langue de paysannes” nell’espressione originariamente di Gilles Marouzeau), da intendersi letteralmente, ci si riferisce infatti alla provenienza rurale di molti dei termini del lessico fondamentale latino: termini che, proprio per la loro basilarità, ci forniscono molte indicazioni sulla costituzione dello strato più antico della lingua e, cosa ancora più interessante, sul rapporto che i suoi parlanti avevano con la realtà.

La ricerca etimologica, fatta di storie di parole ripercorse a ritroso alla ricerca del significato originario della radice, ci ha così permesso di scoprire che prima del denaro pecunia(m) indicava le pecore*; rivalis chi attinge acqua dall’altra riva del ruscello, interprete il mediatore in uno scambio di natura economica (come ho già scritto, è “chi sta tra i prezzi” fatti tra chi vende e chi compra una merce) e felice ‘colui che dà il latte’.

Stando agli etimologisti felicità – in latino felicitas – astratto dall’aggettivo felix (felic-s), sarebbe collegato a fel(l)o (il verbo per ‘succhiare’) o, più probabilmente, ad un *fela ‘mammella’, una trafila che spiegherebbe la condizione di felicità con lo stato di appagamento proprio di chi si è nutrito. A onor del vero occorre dire che dell’accezione di ‘colui che dà il latte’ non si hanno attestazioni, ma pur trattandosi di una congettura, la vicinanza con fel(l)o ‘succhio’ la rende probabile.

Lasciata da parte la questione del significato originario, una volta acquisita questa accezione il termine vive vegeto e prolifera. Nell’italiano delle origini (dunque parecchi secoli dopo) accanto a felice e felicità (che curiosamente appare nei primi testi italiani prima dell’aggettivo) troviamo attestati felicitatore, felicitarice e felicitante, che rimandano, tutti, a qualcuno o a qualcosa che procura felicità (TLIO).

Il fatto che nell’italiano moderno non risultino attestati ed impiegati induce, provocatoriamente, ad una considerazione: che ci siano meno elementi nel mondo moderno in grado di procurare felicità?

Quanto a lieto e al suo astratto letizia, prima invocati implicitamente, il riferimento originario al laetamen ‘il letame’ appare non solo certo ma pienamente comprensibile, essendo il letame una sostanza che rende rigogliosa e produttiva la terra. E dunque abbondante il raccolto e felice il contadino.

Del tutto diversa è la storia di allegro e di allegria, che l’italiano ha ripreso dal francese che a sua volta continuava la parola latina per alacre: ma anche questa differenza, questo non avere a che fare con la primigenia della lingua, in fondo, non sorprende, essendo l’allegria ben diversa dalla felicità.

Uno sguardo, infine, all’inglese, in cui happiness, da happy, è termine abbastanza recente. Happy è infatti attestato nel tardo XIV sec., indica in prima battuta chi è ‘favorito dalla fortuna, prospero, fortunato’ e, per quanto riguarda l’etimo, è da collegarsi a hap sia sostantivo che verbo, lo stesso verbo hap che ancora usiamo come happen ‘accadere’. Ciò significa che ciò che accade è da leggersi nell’ottica del realizzarsi di un certo destino (un po’ come accade con sors ‘sorte’, in latino né positiva né negativa) e che si è felici quando è positivo ciò che ci è toccato in sorte. Ma questa è un’altra storia…

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* Un analogo mutamento in inglese ha portato il proto-germanico *fehu (dall’indoeuropeo *pek-/*peku-, all’origine sia della parola ‘pecora’ che di ‘pettinare’) a diventare prima l’anglosassone feoh – ‘bestiame’ > ‘ricchezza mobile’ e infine l’inglese fee = ‘parcella, tariffa, tassa’. Feoh è anche il nome della prima lettera dell’alfabeto runico anglosassone (cfr. nell’antico nordico), tradotto con “ricchezza” appunto. [segnalazione di Claudia Cantaluppi]