“Il riposo del guerriero” del 3 febbraio 2013

Iniziando a riflettere sul tema del brutto mi sono subito resa conto che l’oggetto del discorso è tutt’altro che chiaro e univoco. L’associazione bruttolingua evoca nel parlante scenari diversi, che si spiegano in funzione dell’interpretazione assegnata a questo nesso.

C’è chi, e non sono in pochi, pensa senza esitazione alle “brutte parole”, ovvero a tutte quelle forme che l’etichetta impone di evitare pena l’essere considerati maleducati: mi riferisco alle cosiddette parolacce, parole o locuzioni di carattere offensivo, osceno, immorale, di cui ogni epoca è ricca e che in parte si sono mantenute, con significati più o meno identici, per tutta la storia della nostra lingua, in parte sono frutto di epoche o episodi in coincidenza dei quali, prendendo per lo più spunto da elementi concreti, si sono formate. Faccio rientrare in questa lista la stessa parola brutto, da evitare in presenza di chi normalmente giudicheremmo tale, e da sostituire con non bello per non apparire maleducati.

C’è chi invece si pone nell’ottica del significato delle parole che classifica come brutte o, all’opposto, belle, a seconda di ciò cui le parole rinviano: saranno perciò brutte parole come guerra, odio, cattiveria, lo stesso brutto o anche tutte quelle che nell’esperienza del singolo parlante sono il risultato di una brutta esperienza che ha scritto tracce indelebili nel significato della parola (tanto per essere chiara: anche parole come primavera o polline, se sono allergica. Nella stessa direzione va il commento di un utente di un blog che, ad esempio, ha dichiarato di odiare: grasso, bilancia, obesità, dieta, regime alimentare, calorie, esercizio fisico, palestra). Al contrario, sono andata a cercare in giro per la rete, è diffuso un sentimento di piacere per tutte le parole che richiamano calore, colore, gioia, infanzia, compagnia.

Un gruppo più sparuto di parlanti, tra cui la sottoscritta, pensa invece al suono e a come, a dispetto del significato, ci siano successioni di suoni che, senza sapere perché, possono piacere o non piacere. Non parlo di fonosimbolismo, ovvero della capacità dei suoni di evocare i significati propri della parola di cui costituiscono espressione (penso ad esempio alla vocale –i, associata in modo naturale e forse universale all’idea di piccolezza e di qui la sua presenza nel baby talk, il madrese, e nel “linguaggio degli innamorati”); parlo di una estetica del significante (del risultato della combinazione di tutti i suoni della parola), del tutto (?) soggettiva, che fa sì che marcescente, incarognito, puledro, pantofole, inchiostro, coltello, aletheia o roboante o, per estare in tema, brutaglia (‘accolta di gente rozza’) possano risultare belle o, invece, sfizioso, gaudente, glorioso, brutte.

Un’altra interpretazione sostenuta da molti fa coincidere brutto con ‘di difficile pronuncia’ o ‘di significato oscuro’: la lista è davvero lunga e, tra le tante forme, ho scelto paralipomeni, perorare, abbarbicato, intangibile, mausoleo.

Infine brutto è assimilato a scorretto e attribuito come giudizio di merito alle varie forme dell’uso che confliggono con la grammatica normativa e con le varietà più alte della lingua: ricorrono in questa lista i piuttosto che in sostituzione di o… o, gli assolutamente senza si o no a seguire, il quant’altro alla fine di una frase, l’attimino e il secondino, non nel senso del sorvegliante nelle carceri.

Come sintetizzare questa carrellata di brutture o bruttezze o brutterie, termini tutti attestati nel corso della storia dell’italiano e continuazione della parola latina popolare (di origine osca, perciò di area meridionale), brutus, pronunciata anche bruttus per la tendenza tipica dell’oralità meno controllata a raddoppiare certe sequenze? Insomma, come destreggiarsi in tanto bruteggiare?

Non brutalizzando la lingua, non bruteggiando e ricordando che il brutto resiste molto più del bello.

Ce lo insegna già la storia del latino, in cui pulcher, la parola per ‘bello’, è stata spazzata via da formusus (è il caso dello spagnolo hermoso ‘bello’) e da un diminutivo di bonus probabilmente di ambito familiare, per l’appunto bellus, laddove invece brutus/bruttus si è mantenuta intatta per più di duemila anni…

… il brutto viene dunque da lontano, da molto lontano…