“COSE DELL’ALTRO GEO” del 21 dicembre 2010
“COME SONO CHIAMATI I 6 RIONI IN CUI E’ DIVISA LA CITTA’ DI VENEZIA: SESTIERI, SESTARI O SESTANTI?”
SESTIERE: ognuno dei sei rioni in cui erano suddivise in passato alcune città italiane (di questa suddivisione resta traccia nella toponomastica di alcune città, tra cui Venezia, dove, intorno al 1320, esisteva una forma di magistratura della città preposta al controllo dei singoli rioni e denominata capi dei sestieri).
Le prime attestazioni le troviamo nei testi di Dino Compagni, politico, storico e scrittore vissuto a cavallo tra 1200 e 1300.
La parola è attestata anche per indicare la suddivisione di un singolo quartiere in sei zone.
Esistono inoltre per il termine anche altre due accezioni: la prima, disusata, di sestiere per indicare un’unità di misura di liquidi o aridi, da ritenersi variante di sestario (che tratto dopo); la seconda per riferirsi alla sesta parte di un ammontare complessivo.
Etimologia: dal lat. sextarius sul modello di quartiere
RISPOSTE SBAGLIATE
SESTARIO: unità di misura di capacità che nell’antica Roma corrispondeva, per i liquidi, ad un sesto del congio (circa mezzo litro) e, per gli aridi, ad un sesto del moggio (circa un litro e mezzo). In età successive continuò ad essere usato anche come unità di peso con valori diversi, a seconda dei tempi e dei luoghi.
SESTANTE: 1) strumento costituito da un settore graduato dell’ampiezza di 1/6 di un circolo e di due specchietti, che consente di misurare l’altezza apparente degli astri sopra l’orizzonte e la distanza angolare fra due astri; 2) moneta di bronzo già in uso nelle antiche popolazioni italiche e poi a Roma, di valore corrispondente ad 1/6 dell’asse duodecimale (ovvero due once); 3) misura lineare romana pari a 1/6 di piede (e corrispondente perciò circa a due pollici); 4) nome di una piccola costellazione del cielo australe, costituita da una quindicina di stelle di modesto splendore.
Ciò che accomuna i tre termini è il riferimento ad un numero, il sei.
La lingua e il suo rapporto con i numeri potrebbe costituire l’oggetto dei 90 secondi di approfondimento
Per approfondire:
LA LINGUA DÀ I NUMERI
In ogni lingua ci sono tantissimi termini che più o meno esplicitamente recano traccia di un’origine connessa con un numero (vedi punto successivo) o con un elemento quantificatore (es. parecchi, molti, pochi, etc.).
Tra i termini connessi con numeri ne abbiamo molti in cui la presenza di una forma numerale è trasparente, molti altri in cui risulta evidente solo a chi è dotato di un grado di conoscenza approfondito della propria lingua, altri ancora in cui il riferimento numerale si è completamente opacizzato risultando così comprensibile solo a chi è in grado di ricostruire l’origine della parola e la sua storia
A fronte perciò di una parola come unità, cinquina, o come millefoglie (ad es. nel nome di pianta achillea millefoglie), ci sono casi come tri– in trifoglio, o come decima, sestetto, triangolo, in cui il valore numerico risulta ancora evidente alla maggior parte delle persone, o altri come binario, quartiere, quaderno, quadro in cui il riferimento ad un numero risulta via via meno evidente ai parlanti italiano.
Come si spiega questo fatto?
Quando ci avviciniamo alla grammatica italiana ci viene detto che esistono i numerali (ovvero le parole con le quali ci si riferisce a numeri) cardinali (uno, due, … mille) e cardinali (primo, secondo, … millesimo): ma parole come dozzina, terno (nel Lotto o nella tombola), terna (es. arbitrale), bis, ter, o, appunto, binario, quartiere, abbinamento, o ambo– in ambedue, mono- in monogamia, deca– in decasillabo non rientrano tra i cardinali né tra gli ordinali. Come si spiega questo fatto? Perciò, quanti tipi di numerali abbiamo?
Ed esistono casi di parole che pur non avendo traccia di numerali rimandano comunque all’idea di un numero? Es. anno, che rimanda a 12 (mesi), o ora (che rimanda a 60, minuti).
Curiosità: perché il 13 porta sfortuna?
La spiegazione è legata alla cosiddetta conta a base corporale, ovvero ai procedimenti usati per tenere traccia di una quantità prima che il cervello fosse in grado di ragionare in modo astratto ovvero impiegando i numeri, che sono simboli per la cui concezione e per il cui uso è stato necessario che si sviluppasse, per il cervello, la capacità di ragionare in modo analitico (detto in altre parole il numero è conseguente alla capacità di saper dividere un’entità in una successione di unità distinguibili l’una dall’altra). Questa forma di pensiero si contrappone a quella sintetica, che consente al nostro emisfero destro di sapere quanti elementi abbiamo davanti senza saper contare ma solo fino ad un numero di unità grosso modo corrispondente al cinque.
Tornando al 13: per capire la ragione della sfortuna dobbiamo partire da un’epoca in cui per tenere traccia di un conto ci si serviva della mano.
Se uso le dita, allora svilupperò una forma di numerazione basata sul 5 o, se uso entrambe le mani, sul 10. Ma se deciso di usare in una mano il pollice come contatore, che si sposta man mano che procedo nel conto, e le falangette (ciascuna delle 3 parti in cui si articola il dito se lo piego), e le falangette delle 4 dita restanti come tracce del conteggio che sto facendo, succederà che terminate le falangette, ovvero una volta arrivata a 12, per poter tenere traccia di una quantità la mano non mi basterà e dovrò ricorrere ad altro.
Questa condizione spiega come si sia sviluppata la base 12, necessaria per spiegare perché le uova si vendessero a dozzine o perché i corredi delle ragazze fossero legati alla dozzina e dunque come il 13 fosse il primo numero a non essere compreso, ad esempio, tra i commensali (l’idea della sfortuna trae perciò origine dalla riconoscibilità all’interno di una tavolata in cui i primi 12 ospiti hanno stesso piatto, stesso bicchiere, etc., a differenza del tredicesimo che è “fuori serie”).
Le ragioni del 17 sono invece completamente diverse e di questa spiegazione non si può recuperare nulla se non il fatto che le diverse culture, a seconda del tipo di numerazione che hanno sviluppato, hanno collegato l’idea della sfortuna all’idea di diversità che caratterizza il primo elemento che non rientra in una serie.
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